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(romanzo di Fernando  De Benedictis)

Una coppia felice di giovani sposi nonché brillanti professori dell’Alma Mater fa un’importante scoperta in Amazzonia. Ritenuta dapprima di esclusivo interesse scientifico, essa rivelerà in seguito sconcertanti legami fra i destini degli indios e quelli dell’umanità intera. Coinvolti da un personaggio enigmatico nelle indagini planetarie sulle oscure intuizioni al riguardo di un esponente del Vaticano di eccezionale levatura, i due ed il misterioso agente scoprono una terribile minaccia globale che incombe sulla Terra, e nell’estremo tentativo di sventarla, affrontano una incalzante sequenza di avventure interstellari mozzafiato.

Ufficialmente uscirà fra qualche mese, ma intanto è già qui:
https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/530836/amazon/
E se fossi in te non me lo farei scappare.

FLY

Fly vuol venire a letto IMG-20170312-WA0002[3062]

Pietosamente pulita e composta nella sua cuccia sotto una calda copertina di lana per alleviarne la sofferenza, la piccola micina sfinita emise un ultimo flebile lamento, quindi spirò.

Accovacciati accanto all’amato fagottino rosso, mamma e papà incrociarono gli sguardi impietriti, mentre le loro mani si rincorrevano nelle ultime, disperate carezze sul corpicino esanime come per trattenervi ancora un po’ il calore che se ne andava, e con esso la vita.
Lei scoppiò in un pianto dirotto, lui la strinse a sé per consolarla, ma aveva la morte nel cuore.

Per i vecchi coniugi senza figli, tutto l’amore che la vita offre come un frutto succoso per fingersi degna d’essere vissuta e farsi perdonare gli strazi a cui condanna s’era riversato a poco a poco su loro stessi e quella gattina venuta dal cielo vent’anni prima, concentrando gran parte della ragione stessa di esistere nelle tre perle preziose unite da un destino indissolubile.
Ma ora la vita aveva gettato la maschera senza più alcun pudore, e calando il temuto fendente sul nodo che teneva insieme le perle, ne aveva sfilato la prima.

Il vecchio pensò con raccapriccio alla possibilità di rimanere solo.
Indugiò ancora con la mano sulla testolina inanimata che tante volte gli si era intrufolata fra le gambe mentre lavorava al computer, e strofinandosi ad esse con affettuosa gentilezza gli aveva ricordato dolcemente che c’era chi aveva bisogno di lui.
Era questa certezza a riempire un po’ il vuoto che gli scavava nell’anima il penoso senso di inutilità nei confronti di tutto il resto del mondo.
Come un padre trova proprio nel sacrificio per la famiglia ed i figli l’unico scopo della sua esistenza, così il vecchio cercava la propria ricompensa esistenziale nella soddisfazione di sapersi a sua volta insostituibile sostegno di qualcun altro… Ma non ne aveva occasione con gli umani.
In casa, ultimamente era la moglie, semmai, ad occuparsi di lui, ormai quasi cieco, e quanto agli altri suoi simili, la mano tesa a quelli che ne avevano davvero bisogno era sempre afferrata da chi invece poteva far passare il gesto per una concessione sua, e ingrassare così col cibo rubato dal piatto degli affamati.
Persino il vescovo che era venuto a chiedere l’acqua per i quattromila parrocchiani del suo polveroso villaggio africano aveva tentato in tutti i modi di stornare il denaro dalle brocche per cose come i SUV che rappresentassero in modo più eloquente il suo potere, e non essendoci riuscito, quando alla fine l’acqua era zampillata gratuitamente dalle fontane sparse qua e là fra le capanne, s’era rivenduto l’impianto frutto di generosità ingannate a chi l’avrebbe fatta pagare cara.

Fly non conosceva inganno.

Fly era tragicamente sincera, quella torrida notte di luglio di vent’anni prima, mentre invocava disperatamente aiuto con il suo miao, miaoo, miaooo ininterrotto e sempre più debole.
Era sincera quella notte, né mai lo tradì.
Sono gli uomini che tradiscono. Fly non covò mai che amore, nell’accoccolarsi fiduciosa fra le sue braccia, quando lui se la portava al cuore per regalarle il rassicurante tu-tum, tu-tum che la madre le aveva negato dal primo respiro.

Era stato suo nipote Erech a darle quel nome.
Respinto dalla povera gatta inaridita, il minuscolo esserino rosso cui stava largo un palmo delicato di donna era precipitato nel cortiletto di sotto dal terrazzo al primo piano, e poiché era sopravvissuto per miracolo al volo mortale, il bambino, impressionato, l’aveva chiamato così.
Anche perché la rovinosa caduta notturna non era stata che l’acconto del salatissimo prezzo pagato dalla neonata per conquistarsi il nome ed un posto nel mondo. Al momento dell’investitura, la sera del giorno seguente, la piccolina aveva già combattuto e vinto altre epiche lotte più di un eroe greco, con la sola forza della sua indomabile voglia di vivere.

Impietosito dai lamenti, il villeggiante s’era alzato all’alba per darle un po di latte, e la cercava.
La gattina forse aveva ancora gli occhi chiusi e comunque non era certamente in grado di capire nulla, ma un potente e misterioso istinto di sopravvivenza la spingeva verso i richiami dell’uomo.
Dalla piccola aiuola rotonda dov’era precipitata, era riuscita ad arrampicarsi sul piancito superando lo spessore delle mattonelle di cotto, e lì arrancava verso quei suoni strisciando sulla pancia.
La testolina era poco più grande di una nocciola; l’enorme piede la sfiorò posandosi ad un paio di centimetri appena, senza che il gigante se ne accorgesse.
A quel tempo l’uomo riusciva ancora a vedere abbastanza bene, con le lenti a contatto, ma si aspettava di trovare un cuccioletto vispo e magari vistosamente colorato di bianco e di nero… non l’aveva proprio notato quel ranocchietto “spalmato” sul pavimento dello stesso colore, che non riusciva nemmeno a stare in piedi.
Per fortuna, dalla finestra la moglie osservava le operazioni con il suo proverbiale sguardo di lince, si avvide del pericolo appena in tempo, e con un urlo agghiacciante trattenne a mezz’aria il passo successivo del marito, riuscendo ad evitare la tragedia per un soffio.
Il gigante raccolse la cosina inerme con un tuffo al cuore.
L’aiuola da cui era spuntata era tappezzata dei frutti caduti dall’arbusto che vi cresceva, e le capsulette irte di spine, un po’ più piccole dei grani di pepe, le si erano attaccate al pelo dalla testa ai piedi peggio di zecche.
Come non bastasse la tremenda fame, ci mancava anche quest’altro insopportabile tormento per il tenero corpicino dal delicato pelo rossiccio!
L’uomo rivolse un pensiero risentito a Dio: “E che gravi peccati avrebbe mai commesso questo esserino qui?” Gli domandò bellicosamente, senza ottenere risposta.
Era in rotta con Lui, e non gliene mancavano le ragioni.
La mala sorte che si accaniva da sempre contro la sua famiglia come irridendo gli inutili affanni dei genitori per sottrargliela; quel grave problema agli occhi che minava dall’infanzia lui e la sorella insidiando il loro futuro; i figli che aveva tanto desiderato e che non erano mai venuti ad allietare i suoi giorni; la recente morte del cognato con il grande vuoto che aveva lasciato a moglie e figli, e la solitudine di lei, senz’altra eredità che i due bambini bisognosi di tutto, ed un lavoro precario per dar loro tutto ciò che poteva…
Era da tempo, infatti, che l’uomo soffriva di un malessere crescente per i mali del mondo, e non riuscendo a risolverne la contraddizione con un Dio onnipotente ed infinitamente misericordioso, tendeva a darne ogni colpa a Lui…
“Sempre che Tu esista, naturalmente!” Soggiunse con fare provocatorio, senza tuttavia ottenere risposta anche questa volta.

Le cure della sopravvissuta rubarono il mare a lui e sua sorella per l’intera mattinata.
Amavano gli animali perché li avevano avuti intorno fin da piccoli, loro; la moglie, invece, doveva ancora convincersi che esistessero davvero, dato che fino ad allora ne aveva visti solo in cartolina, perciò aveva preferito accompagnare i bambini in spiaggia.
Ma ad onor del vero va detto che prima di uscire s’era attardata un bel po’, ad osservare le operazioni di soccorso.
Per nutrire il gattino, che solo molto tempo dopo si scoprì essere una femmina, i fratelli gli davano con un contagocce latte e zucchero diluiti in acqua, e intanto lo liberavano dagli infernali granelli spinosi, ben attenti a non fargli ancora più male. Bisognava evitare di tirare i peli alla radice, per non strapparglieli insieme a quelle dannate palline puntute.
A questo scopo, se le inserivano sotto l’unghia del dito medio, bloccando i peli con il pollice contro il bordo dell’unghia stessa in modo da lasciare nel tratto esterno i grani spinosi, dopo di che li sfilavano con l’indice dai grovigli, tirando su quella stretta fra unghia e pollice anziché sulla pelle.

Al rientro dei bagnanti la disinfestazione era ancora a metà, di conseguenza quel giorno si pranzò molto tardi, ma nemmeno i bambini se ne lamentarono, ed anzi, ormai all’inizio di una profonda “conversione”, anche la zia volle accarezzare il piccino.

Non sapevano se era caduto dal terrazzo accidentalmente o se l’aveva spinto fuori la madre, e poiché la cosa migliore per il micino era che crescesse da gatto allevato dalla gatta, lo esposero alla sua vista sperando che lo riprendesse, e lei lo fece.
Quel pomeriggio la Calabria sembrò ancora più bella ai villeggianti felici del loro successo.
La sera, però, nel buio del cortile i miagolii risuonavano di nuovo, supplicanti e sempre più sommessi.
Preso dall’angoscia, l’uomo non poteva stare ad ascoltarli senza fare qualcosa. Andò in giro a rompere le scatole a tutto il vicinato per trovare una pila, e quando n’ebbe ottenuta una, si mise di nuovo in cerca del reietto per regalargli un po’ di calore.
Lo trovò in una pila di tavelloni accatastati contro un muro.
Era rannicchiato in un foro dei lunghi mattoni come nella galleria in fondo alla quale le anime dei morenti vedono finalmente la luce dell’amore.
Di fronte a tanto disperato attaccamento alla vita, l’uomo si vergognò di aver desiderato talora di morire. Raccolse con delicatezza il valoroso involtino tremante provando un altro violento tuffo al cuore, e comprese che nulla avrebbe mai più cancellato quell’emozione dai suoi ricordi più belli.
Fu dopo l’ultima poppata col contagocce al termine di quel giorno drammatico che Erech battezzò la gattina con il nome nobile e bello che l’avrebbe distinta per sempre.

Fly visse tenacemente anche dopo, offrendo sempre strazianti lezioni di dolcezza. Così gelava l’anima, facendosi trovare la sera dietro il frigorifero, in cerca del calore di cui aveva tanto bisogno sul metallo della serpentina, ma poi regalava anche la meravigliosa soddisfazione di sentirsi un rifugio accogliente e sicuro, quando s’arrampicava sul petto di chi ce la prendeva per nutrirla con gli occhi negli occhi e per darglielo col proprio corpo, quel calore, insieme al suono che l’aveva cullata ogni momento, finché era stata nel ventre confortevole della madre.

L’uomo e la sua amata consorte non avevano ancora deciso il loro destino di papà e mamma, quando si trattò di risalire al Nord.
Data la ancora scarsa propensione della moglie al pensiero di convivere con un animale, s’era rassegnato anche lui all’idea di dare Fly in adozione a qualche amico o parente che già ne aveva, ma per questo dovevano comunque portarla con sé, e così fecero.
Dormiva tranquilla, la micina, mentre risalivano la penisola in auto e lei stava nella gabbietta per passeri che era l’unico trasportino trovato in paese, ma poi s’appiattiva sulla pancia con le orecchie abbassate come supplicando di non abbandonarla, quando si fermavano per sfamarla all’aria aperta, e la facevano uscire fra le stoppie di un campo di grano.
I coniugi senza discendenza non osavano ancora dirlo, ma sentivano dal profondo che ognuno di quei gesti era un nodo in più al dolce legame col mite cuccioletto rosso, e che quel legame non si sarebbe sciolto mai più.
La conferma venne presto. Come ispirati da un destino che non voleva ostacoli al suo disegno, amici e parenti che avrebbero potuto adottare il micio declinarono gentilmente l’offerta con le scuse più ridicole, e così Fly entrò finalmente in casa sua.
Restava solo da conquistare il letto.
Attento ad assecondare il delicato adattamento della moglie evitandole dei mutamenti radicali all’improvviso, di notte l’uomo chiudeva la porta della camera, sapendola ancora impreparata a lasciare che un gatto le passeggiasse addosso durante i suoi sogni… ma infine fu lei stessa a volerla aperta “per respirare un po’ d’aria fresca”, e dopo che ebbe imparato a comprendere il linguaggio dei morbidi passi sul cuscino, non riuscì più a trascorrere una notte senza ascoltarne il sussurro.
Ma era maschio o femmina, quel batuffolo rosso che le impediva di dormire scompigliandole i capelli? In un gattino piccolo è difficile capirlo. Anche le due veterinarie dell’ambulatorio sotto casa davano versioni opposte, seppur entrambe con valide argomentazioni scientifiche. Un giorno, però, Fly mise d’accordo anche loro rivelandosi definitivamente la femminuccia che credevano i suoi grossi amici a due gambe, e con questa certezza, la consacrazione genitoriale della coppia s’era compiuta.

“Ma non sarà muta?” Domandò un giorno la “nonna paterna”, che non l’aveva mai sentita miagolare, e in effetti, Fly pareva averlo dimenticato.
Strappata all’abisso del nulla da mani umane che poi l’avevano profumata di coccole e latte in polvere, si credeva forse un bambino obbediente.
E proprio come il babbo di un frugoletto curioso, l’uomo si divertiva più che al cinema, quando in campagna lei lo seguiva passo passo tra i fiori dei campi scansando con cura erbacce e sassolini. Ma quando poi la micia osservava il traffico d’insetti intorno al rivolo d’acqua che spariva nel tombino, anche la mamma non si stancava di rimirare sorridendo la comica: somigliava più ad un ricercatore di National Geographic che a un sadico felino cacciatore, con quel suo oscillare la testa di qua e di là per seguire le “prede” una ad una senza muovere un piede nemmeno per grattarsi.
Quanto poi ad arrampicarsi sugli alberi, sembrava che Fly lo considerasse una bravata da ragazzacci di periferia.
Tentare di ricordarle che era un gatto era doveroso per dei bravi genitori, e in effetti gli umani che l’avevano adottata ci provarono in diversi modi, ma non sempre con i risultati sperati.
Il babbo riuscì a convincerla ad esprimersi di nuovo in “gattesco” miagolando lui stesso ogni volta che si sentiva al riparo dagli sguardi di chi potesse prenderlo per matto, ma non servì a nulla che rischiasse ripetutamente il suo ormai datato osso del collo scalando qualche alberello per mostrarle che oltre a farcisi le unghie ci poteva salire sopra… E nemmeno servì che la mettesse sull’albero lui, visto che ad ogni tentativo la micia saltava subito giù come se quello fosse l’albero proibito.
Invece balzava sui davanzali e faceva l’equilibrista sul muretto di un terrazzo, o fuori dalla ringhiera dell’altro, lungo vie immaginarie larghe pochi centimetri e tracciate quasi nel vuoto, che vedeva solo lei.
Papà e mamma tremavano, nel timore di vederla volare giù dal quarto piano come se volesse onorare il suo nome, immemore di quanto le era già costato. Volevano proteggerla, ma senza imprigionarla in un bunker privandola del suo sguardo libero sul mondo, misero allora reti ai terrazzi e zanzariere ai davanzali, e attraverso quelle grate sicure, seguivano il volo dei piccioni in cielo insieme a lei.
Facevano tutto il possibile perché la sua vita scorresse serena e al riparo dalla cattiveria del mondo.
Soprattutto, non la lasciarono mai sola.
Era tanta la pena per le sofferenze che la loro bimba aveva patito venendo al mondo, e per lo sgomento in cui doveva averla gettata l’abbandono della madre, che erano decisi a farglieli dimenticare per sempre come se ne sentissero la colpa su di sé, e volessero quindi ripagarla in tutti i modi per tanta inutile crudeltà.
Così la portavano con sé ogni volta che era possibile, e se, viceversa, nessuno dei famigliari più affidabili era in grado di andare ad abitare a casa loro per accudirla e tenerle compagnia durante un periodo di lontananza, rinunciavano anche a viaggi e vacanze. Restavano a casa anche loro, pur di non peggiorare il trauma della separazione “deportandola” nelle squallide gabbie di un albergo per animali, o anche a casa della nonna, che per quanto fosse un posto accogliente le era pur sempre estraneo.

Dal canto suo, Fly li ripagava giocando. Ciò potrebbe anche far sembrare puerili i due umani, ma allora tutti i genitori lo sono, visto che si divertono ai giochi dei figli più degli stessi bambini.
Dunque che c’è da ridire, se i due coniugi soli godevano della stessa gioia grazie alla loro gattina?
Lei giocava a calcio meglio di Maradona, anche se forse sperava che il “pallone” si tramutasse in un topo da un momento all’altro. Questo era una specie di tubero bitorzoluto fatto con tante palline di gomma di tutti i colori saldate fra loro a grappolo, che mamma e papà le avevano regalato in occasione di un Natale, e lei aveva subito apprezzato moltissimo. Lo inseguiva per la stanza passandoselo da un piede all’altro ad una velocità difficile da inseguire persino con lo sguardo, poi si fermava di botto ad osservarlo piantandoci contro il naso, gli dava un colpetto con un piede per fargli riprendere vita, e ricominciava daccapo finché il gioco non la stufava. Allora dava un calcio indispettito a quel topo così poco collaborativo spedendolo sotto un mobile, e se ne andava a dormire.
Adorava il basket, anche, e impazziva per il fruscio un po’ metallico della carta per dolci.
Appena papà alzava gli occhi dal computer e scartava una caramella o un cioccolatino per fare una “partita”, lei drizzava le orecchie ovunque fosse, e accorsa ai suoi piedi, lo fissava con gli occhi spalancati. Naturalmente lui non s’era nemmeno sognato di cestinare la pallottolina prima di quel momento; con qualche finta teneva l’amica ancora un po’ sulla corda, e quando la vedeva al massimo della tensione faceva finalmente il lancio nel cestino della carta.
Come se gli avesse letto nel pensiero, lei sembrava scattare sempre un attimo prima, si tuffava a capofitto nel bidone di plastica, ripescava immancabilmente la pallottolina giusta, e poi cominciava a giocare a pallone anche con quella.
Era bello occuparsi senza risparmio della loro bambina pelosa, ed erano giorni felici, quelli, nonostante il passare del tempo ed il susseguirsi delle tempeste al seguito.

Naturalmente c’era chi criticava tanta abnegazione “per un gatto” – come dicevano con malcelato disprezzo – ma l’uomo rispondeva che Fly non l’aveva mai deriso per come miagolava, anzi ci si era adeguata riprendendo a miagolare a sua volta, e quando lo vedeva triste evitava di lamentarsi se la ciotola era vuota, ma gli si accoccolava in braccio per consolarlo con la sua presenza silenziosa e fedele.
Invece gli avevano riso in faccia persino i togati custodi della legge, sentendogli dire che aveva fiducia nella giustizia… Era capitato più di una volta contro corrotti e predoni, ed era capitato contro quelli che nell’udienza a sei occhi sedevano accanto al magistrato.
Invece creava più astio che gratitudine la guerra contro l’ignoranza che lui combatteva con generosa lealtà per i propri alunni: c’era il pericolo di doversi assumere delle responsabilità anche prima di mettere su famiglia, se avesse vinto. I più “devoti”, quindi, lo avevano ricompensato rovesciandogli addosso una montagna di ignobili calunnie. Di rimorsi per la vigliaccheria nemmeno l’ombra: l’importante era rimanere bambini in eterno.
Invece c’era sempre un potere colluso e malsano dietro le false accuse che permettevano ai disonesti di sopraffare un innocente.

Sapevano benissimo, i due coniugi soli, che l’amore per un figlio è il sentimento più forte che si possa provare, come pure sapevano che senza amore l’esistenza è una mansione da robot, o una specie di vuoto videogioco, ma per loro, queste erano state nozioni semi astratte quasi come le fette di torta di un problema di matematica, fino all’arrivo di Fly. Era stato grazie a lei che avevano potuto assaporare la torta vera, provando forse le stesse emozioni di genitori tutti concentrati a fare da scudo alla vita dei figli, e sempre grazie a lei avevano anche potuto capire sulla viva carne che l’essenza stessa dell’amore è proprio questo dono totale di sé.
La gattina rossa precipitata dall’alto era dunque l’unico dono ricevuto dal Cielo, agli occhi loro, ovvero un angelo della Provvidenza mandato a dare un senso anche alla solitudine, perciò non ammettevano censure sulla loro bizzarra famigliola, e insistere a farne oltre il primo altolà era il modo migliore per buttare alle ortiche la loro amicizia.
Protettivo attraverso il suo bisogno di protezione, il piccolo angelo rosso assicurava uno squarcio di sereno al vascello in cui navigava con i suoi cari sotto un cielo in tempesta, ma questa infuriava, intorno, e il tempo, nemico mortale del creato, ne era il signore oscuro.
Un rovescio, un’ingiustizia, un tradimento, una persecuzione, il congedo dal lavoro nell’oblio fra tutti gli altri in festa.
Il tempo scandiva le frustate della vita all’anima innocente.
Il suocero, sua madre, suo padre, tanti zii e già troppi cugini, un esercito di amici.
Il tempo ritmava le tristi defezioni dei cari dal mondo più vicino e amato.
Un dolore di qua, uno di là, una malattia più incarognita del solito, l’entusiasmo che scemava in tutte le cose insieme all’energia che ci voleva, ma soprattutto quell’ombra maledetta che calava inesorabile davanti agli occhi.
Il tempo orchestrava le percosse della brutta bagaglia.
Sembrava che s’accanisse col babbo, in particolar modo.
Lui si sentiva come Ulisse in balìa del canto ammaliatore delle sirene, e come Ulisse resisteva all’incantesimo legato al suo scopo supremo, anch’egli resisteva alle frustate, alle sciagure ed ai colpi del tempo, legato alla creatura che con ogni sforzo cercava di sottrarre al male.
Ma come quella brutta bagaglia della vecchiaia, il male è, anche, figlio del tempo, e nemmeno un piccolo angelo rosso piovuto dal cielo sfugge alle angherie di quella cosca malavitosa, anzi, il suo tempo scorre più veloce ancora, purtroppo.

Un giorno di primavera come tanti, Fly stava prendendo lo slancio per saltare sul davanzale della camera. Doveva essere di domenica, poiché il babbo poltriva ancora sul letto e la osservava in attesa di ammirarne il balzo.
Ma come un atleta che sente di non farcela, lei interruppe lo scatto a mezz’aria graffiando il muro, poi rinunciò con l’aria avvilita.
Colto da una tenerezza improvvisa e malinconica, papà si alzò, la prese in braccio e la pose sul suo osservatorio prediletto, accarezzandole la testolina docile fra le orecchie per consolarla.
Lui non era più giovane, allora, ma forse la giovinezza della sua amata bambina era già un po’ meno in fiore della sua.

Il vecchio ricordò la scena con la stessa stretta al cuore di quella volta.
No, non era stato un giorno come tanti, quello: col brutale memento della sua legge crudele, il signore oscuro ne aveva fatto un amaro passaggio.

Ad ogni modo, il vascello navigava ancora sicuro sui solidi legni dell’amore, nonostante lo squarcio di sereno si stesse restringendo.

Quando cambiarono casa, l’uomo s’era ormai rifugiato in pensione, disgustato dai suoi simili.
C’è una quota consistente di malvagità umana nel male assoluto, e chi dice, poi, che non sia davvero in essa la colpa originale per l’avvento del tempo stesso?
Ma se così è, non basteranno mille generazioni ancora a por fine alla fine di tutto con la vittoria del bene. Per l’uomo, dunque, la storia sarebbe finita con Fly, e agli occhi di strenuo combattente della guerra infinita che egli era, ciò ingigantiva a dismisura il senso opprimente di vuota inutilità della sua vita senza di lei.
Sua moglie, invece, era ancora prigioniera del lavoro.
Più giovane, era rimasta vittima dell’infamia politica che incatena al remo della galera fino all’orlo della fossa, di conseguenza stava fuori casa per gran parte del giorno, cosicché la dolce gatta dai grandi occhi imploranti ed il suo fedele amico a due gambe divennero l’una la sola ed inseparabile compagnia dell’altro per tutto il tempo che seguì.
Fra una partita a pallone, una a basket, una passeggiata in terrazza, una merenda ed una pennichella fianco a fianco, sempre che lei non preferisse incoronargli la testa sul cuscino, erano diventati un tutt’uno.
Erano sempre nello stesso posto, e qualche volta occupati anche nelle stesse faccende come per esempio il pranzo.
Anche se l’umano preparava prima per la gatta, lei gironzolava qua e là come se non avesse fame, ma appena il suo amato si sedeva a tavola e cominciava a mangiare, ecco che compariva trotterellando dal corridoio con le orecchie da lince puntate sulla sua ciotola, e dopo una rapida annusatina per capire se il menu era di suo gradimento, faceva altrettanto anche lei con la foga di una randagia affamata.
Fly aveva persino abdicato al suo trono per stare più vicino all’adorato papà. Era, questo, il grande letto matrimoniale dei suoi, che dal giorno della conquista, poco dopo l’ingresso in famiglia, era diventato il suo regno incontrastato. Con aria regale, ci si piazzava in mezzo a mo’ di sfinge per tutto il tempo che non giocava o mangiava, e ciò poteva voler dire anche una ventina di ore al giorno.
Da quando in casa rimanevano quasi sempre loro due soli, però, aveva preso a passare gran parte di questo tempo sdraiata a terra nello studio proprio dietro la poltrona a rotelle del babbo, col rischio anche di venire travolta, nel caso di una sua retromarcia distratta.
Per farla stare comoda e al sicuro, allora, papà e mamma le avevano costruito un confortevole “monolocale” con una scatola di cartone.
Da brava bimba con ascendente gatto, infatti, Fly adorava infilarsi nelle scatole.
La mamma se n’era procurata una delle sue dimensioni al supermercato, il babbo aveva ritagliato su uno dei lati lunghi un bell’ingresso a mezzaluna che faceva anche da veranda e poi, insieme, i due avevano comprato un soffice materassino rosso che ci stava a pennello e lo avevano disposto sul fondo.
Completarono l’operazione collocando il monolocale dietro alla poltrona, sotto la sporgenza del tavolo fra bordo e gambe in modo che fosse ben protetto anche da accidentali cadute di oggetti dall’alto, e mentre lo facevano, l’inquilina girava loro intorno controllando tutto attentamente come un esperto direttore dei lavori.
Al termine, s’insediò subito nella nuova proprietà senza bisogno di alcuna spiegazione, e con la stessa felicità di una terremotata che l’avesse attesa da una vita.
Naturalmente di notte ritornava al calduccio fra i suoi due grossi “ciambellani” nel regno del lettone, ma dal giorno in cui l’ebbe inaugurata, la nuova villetta rimase per sempre la sua prediletta residenza diurna.
E poi c’è ancora chi crede che gli animali possano agire solo “per istinto”!

Un brutto giorno poco dopo i diciott’anni, Fly lanciò un urlo agghiacciante.
Erano in casa tutti e tre, in quel momento. Allarmatissimi, papà e mamma la raggiunsero nel corridoio.
Era accasciata sul posteriore e non riusciva a rialzarsi.
La portarono d’urgenza alla clinica veterinaria. Là, rimase solo lui ad accudirla durante la visita: la mamma aveva dovuto scappare via di corsa per non fare tardi a scuola.
Un ictus.
Sulla via del ritorno, il tassista osservava nello specchietto retrovisore quel vecchio uomo in preda allo sconforto, con il trasportino sulle ginocchia ed il viso inondato di lacrime senza ritegno.
Anche il tassista aveva avuto un gatto, e avrebbe voluto consolarlo, ma non sapeva cosa dire.
Il vecchio era preparato da tempo all’ineluttabilità della morte, anzi, il pensiero della sua lo aveva addirittura blandito più di una volta, ma Fly era un pezzo importante di sé che se ne stava andando, e perdere lei sarebbe stato peggio che perdere un braccio o una gamba. Ma poi, soprattutto, ciò che più lo atterriva era che il destino potesse unire la beffa alla sua crudeltà, e chiamare lui stesso a decidere di ammazzarla. Sì, ammazzarla, diceva, perché sopprimerla gli sembrava un’ipocrisia, e a lui ripugnava anche solo l’idea di far ammazzare l’amica più cara di un’intera vita.
Sua madre ne aveva avuti sette, di gatti, ed erano morti tutti nel conforto della sua vicinanza amorevole, senza bisogno di ammazzarli… Così voleva essere anche lui, e pregava Dio di non costringerlo a presentarsi negli ultimi istanti dell’adorato sguardo come se fosse un traditore.
Dio gli mandò qualche altra dolorosa prova, ma per il momento lo esaudì.

Delle proverbiali sette vite in dotazione ai gatti, una, a quanto sembra, è grazie ad un sistema vascolare capace di rigenerarsi rapidamente e con buona efficacia. In capo ad una settimana di eroici sforzi, infatti, Fly era di nuovo in piedi e camminava con grande dignità.
Le sue battaglie non erano ancora finite, però.
Pochi giorni dopo quella prima vittoria, cadde in uno stato di prostrazione comatosa come se lo spietato nemico del mondo, il tempo, si volesse far beffe della valorosa resistenza stroncandola subito con la sua ultima e fatale rappresaglia.
Sembrava ormai alla fine, la poverina, raggomitolata nella sua scatola di cartone senza mangiare né bere per tutto il tempo.
I fedeli amici umani ne vegliavano l’immobilità senza traccia di vita con un opprimente senso d’impotenza, ma al tempo stesso sostenuti da una speranza incrollabile, e forse fu proprio questa fede quasi religiosa a far emergere dall’angoscia la cura che salvò Fly.
Affidandosi ad un’improvvisa intuizione, per qualche giorno essi smisero di darle la medicina per la pressione che l’aveva aiutata a riprendersi dall’ictus, e rifiorendo d’incanto, lei si riprese finalmente anche dal coma.
Era stato il suo papà umano a voler fare quel tentativo, per altro senza alternative.
Mentre contemplava sconsolato l’inferma esanime, gli era sembrato di aver già visto una scena simile la volta che suo padre era svenuto a causa di un calo di pressione eccessivo, e sotto l’influsso del ricordo, egli aveva deciso sui due piedi di interrompere la somministrazione del farmaco. Non sapeva se facesse bene o no, ma rotto per rotto doveva tentare. In fondo il medicinale era per uso umano, e su di lei che pesava trenta volte meno il dosaggio poteva essere eccessivo, alla lunga.

Per questo o per chissà quale altro miracolo, andò bene.
Evidentemente Fly doveva avere anche più di sette vite, considerate tutte le violente battaglie che aveva combattuto e vinto nella terra di mezzo tra la vita e la morte.
“Highlander!” Esclamò un’amica della mamma con aria trionfale, strappando un luminoso sorriso anche a papà.

Ad ogni modo, la dolce gattina non fu più in grado di saltare sul letto, purtroppo, e anche il suo passo normale era rallentato, con una gambina di dietro che si affaticava più delle altre; inoltre la pressione andava comunque tenuta sotto controllo, sebbene a dosaggi adeguati, e insieme, tutto ciò era un monito permanente a non dimenticare mai l’incertezza del domani.

Papà e mamma osservavano nella loro figlioletta adottiva le amare tracce del cammino inesorabile della vecchiaia con immenso dolore. In una famiglia umana sono i figli a scorgerle nelle fatiche dei vecchi genitori, e anch’essi se ne addolorano, ma il rinnovo della vita nei figli loro stempera il dolore portando con i virgulti un senso nuovo, mentre per i genitori senza prole di Fly non era così: non c’era speranza di consolazione nel loro orizzonte.
Come la più devota delle coppie con un bambino in ostaggio ad una malattia debilitante e senza scampo, i due anziani coniugi si dedicarono allora anima e corpo ad addolcire quanto più potevano i giorni della loro amata per godere insieme a lei ogni istante che il destino concedeva. Avevano imparato ad apprezzare come mai prima il dono inestimabile del presente, perciò non si prefiggevano altro scopo che viverlo fino in fondo così.

Traslocarono la villetta di Fly dallo studio alla camera da letto per non farla sentire esiliata e sola di notte, ma presto loro stessi provarono un senso acuto di vuoto, senza il suo corpicino in mezzo a tenerli uniti anche nel mondo dei sogni. Così, una sera che papà, come d’abitudine, prima di andare a letto le stava accarezzando la testa per sentirsela spingere contro il palmo della mano con un fremito delle orecchie, fu sopraffatto ancora una volta da quegli occhioni dolci che dal primo giorno di vita gli chiedevano di prenderla con sé, e ancora una volta egli lo fece senza pensarci un attimo.
Sotto le lenzuola, la mamma sorrise in silenzio fingendo di dormire, ma subito dopo preferì sfilare un braccio dalle coperte per accarezzarla a sua volta, e in questo modo la cara intimità dei tre riprese ogni notte quasi come prima.
Poco importava il “quasi”, cioè svegliarsi quando lei cominciava a camminare sui cuscini per far capire che aveva fame o qualche altro bisogno, aiutarla a scendere, aspettare che tornasse dai suoi vagabondaggi notturni da felino, riprenderla su e tornare a dormire: per la loro bambina avrebbero fatto ben altro.

Fly si adeguò immediatamente a queste nuove abitudini.
Conosceva perfettamente tutti gli orari di casa, e a seconda che avesse voglia della quieta “trinità” notturna prima o dopo, si faceva trovare ai piedi del letto dalla mamma o dal babbo con incredibile puntualità… Ma poteva capitare anche che andasse lei a suonare la ritirata a quei tiratardi, se si trattenevano troppo nelle loro bizzarre faccende umane.
Si fece rimettere il monolocale dietro la poltrona del babbo, e ovviamente stava raggomitolata là dentro quasi tutto il giorno. Forse era presa dalle epiche cacce che poteva solo sognare, ma forse era addirittura impegnata ad abbellire di sé un mondo migliore… e questa era l’idea preferita dalle due care persone che vivevano per lei.
Aveva cominciato, anche, ad addormentarsi direttamente sui piedi del babbo, per concentrarsi meglio nelle sue meditazioni, e lui non osava muoverli di un millimetro, per paura di essere sbalzato fuori dal suo regno incantato.

Papà era ormai praticamente cieco.
Per fortuna riusciva ancora a lavorare al computer, sebbene a fatica, ma vedeva solo in una zona molto ristretta e ben illuminata davanti a sé, perciò difficilmente si accorgeva dell’ombra furtiva che gli girava fra i piedi nella penombra, quando si muoveva a tentoni per casa, e una volta le aveva anche pestato la coda strappandole un urlaccio.
Gli era dispiaciuto moltissimo, naturalmente, però non era stata solo colpa sua, piuttosto del tempo, invece. E’ sempre quel sadico nemico giurato del creato, che gode ad affliggere il mondo per mezzo del mondo più caro.
Il fatto è che quando era sveglia Fly amava molto passeggiare, e soprattutto seguire ovunque il suo adorato papà, ma col passare del tempo si stancava sempre più e sebbene, da combattente nata qual era, non rinunciasse mai a gironzolare per casa, sempre più spesso si appoggiava a muri e stipiti per riposarsi, o addirittura si accasciava a terra per un po’. Questo rendeva ancora meno prevedibile la sua posizione, e più alto il rischio che il babbo la calpestasse di nuovo, allora lui s’era messo addirittura a strisciare i piedi come un paralitico, pur di non farle male un’altra volta… ma se, così o con l’aiuto della moglie che gli faceva da vedetta, lui riusciva faticosamente a non essere complice del teppista che odia l’amore, men che mai il tempo placava il suo odio.

Com’è come non è, però, si vede che talvolta l’amore può bastare a sé stesso, perché malgrado le bordate del nemico, l’indissolubile terzetto visse ancora molti giorni sereni e felici, nel calore della propria intimità.

Una volta Fly si sostituì addirittura alla Protezione Civile salvando la casa da un’inondazione.
Già da molto tempo i suoi genitori umani la consideravano un angelo inviato dal cielo, ma con quell’impresa lei si guadagnò anche una fulgida aureola, e così, fra quelle mura, l’evidenza elevò a prediletta certezza la sua reputazione celeste.
Nel diario che teneva, papà annotò il fatto così.
MIAOOOOO!!!!!

A volte Fly avvisa sonoramente, se le scappa dove non deve.
La mamma è accorsa trafelata temendo il peggio, ma non era di gattesca pipì la marea che avanzava minacciosa nella stanza, e già lambiva la villetta di cartone della micia inzuppandone la base.
Nel lavello del bagno stracolmo, il materassino rosso del suo giaciglio fluttuava nel morbido ammollo odoroso di bucato, mentre un getto d’acqua come d’idrante antincendio erompeva con furia dal rubinetto che pareva sgozzato, e soverchiando l’ingoio difensivo del “troppo pieno”, dilagava ormai sul pavimento a valle senza trovare più alcuna resistenza.

La bonifica è costata molti stracci strizzati e un bel mal di schiena, a forza di svuotare il mastello nel water, ma grazie al tempestivo allarme di Fly IL PARQUET È SALVO.
Al pari di Hendrick, il bambino che salvò l’Olanda dall’alluvione tappando il buco nella diga con un dito, l’eroica gattina ha salvato la sua famiglia dalla furia delle acque con un potente miaooooo, e adesso, sul comò, la statuetta in bronzo di un micio rosso con la coda su si strofina alle gambe del bambino biondo venuto dall’Olanda, con gli zoccoli ai piedi e le calze giù.

Ma la gioia del presente era intrisa di malinconia, benché ogni momento passato insieme fosse un bel regalo per tutti e tre.
Il fato era in agguato dietro alla falsa innocenza del tranquillo fluire del tempo, e nell’aria aleggiava il suo alito feroce.

Fly aveva avuto la cistite altre volte, in passato, ma non era mai stato un problema. Fin dalla prima somministrazione dell’antibiotico gli spasmi della pipì si calmavano, e in capo ad una settimana di cura era già tutto nel dimenticatoio da diversi giorni.
Ma questa volta sembrava particolarmente riluttante ad assumere la medicina, e il quarto giorno non ne voleva proprio più sapere.
Il babbo interruppe la cura, preoccupato.
La notte tremava convulsamente e batteva i denti, mentre lui la prendeva a letto.
Poi smise di mangiare ed anche di bere.
Il veterinario disse che non ce l’avrebbe fatta, se non avesse ripreso a nutrirsi, ma per questo non doveva indebolirsi troppo, perciò papà e mamma le davano dei cibi semiliquidi con una siringa e lei, poverina, li mandava giù, anche se forse avrebbe solo voluto che la lasciassero in pace.
Il cortisone non sortì alcun effetto, e nemmeno con gli anabolizzanti tornò in lei quell’invincibile forza vitale che tante volte l’aveva fatta trionfare sull’oblio.
Giaceva nella sua scatola come un indumento vuoto, la testa completamente inerte sul cuscino, finché, quel maledetto giorno…
………
anche lei morì.

A letto, nella silenziosa oscurità della notte, il vecchio piangeva, piangeva, piangeva.
Gli mancava maledettamente quel vellutato fagottino peloso fra lui e la moglie, che per quasi vent’anni aveva diviso sonni tranquilli con loro come un eterno bambino, quella leggera pressione sopra le coperte che le faceva adagiare lentamente sul suo posto nel mezzo, scoprendo loro la schiena o il davanti accanto ai bordi del letto, la testolina amica dalle orecchie frementi che gli s’appoggiava teneramente alle gambe cercando affetto e carezze nelle mani fidate.
Di chi si sarebbe più occupato, lui, adesso?
Poco importava che fosse per prenderla al sole in terrazza sopra di sé, per giocare a pallone col grappolino di gomma, a pallacanestro con l’incarto crepitante di un cioccolatino, o per riempire un carrello da buongustaia fiera affamata all’Isola dei Tesori come per un gesto scaramantico di buon augurio, per cercare spazzole in internet e forbici dentate dal barbiere adatte a scioglierle i nodi del pelo, o inventarsi complicate preparazioni galeniche per il dosaggio utile e sicuro delle medicine alle sue proporzioni…
L’importante era occuparsi di lei, perché se non lei, di chi altri poteva occuparsi un vecchio quasi cieco, ormai incapace anche di due passi intorno a casa tanto per scambiare un saluto col primo che incrociava?
“Tu de l’inutil vita estremo, unico fior…”
Il verso del “Pianto antico” gli si ripresentava insistentemente alla memoria.
Lui non si accostava certo a chi perde il proprio stesso sangue a tre anni di età, ma se ora poteva anche solo intuire da lontano il dolore del poeta come mai prima, era perché anche lui soffriva per la perdita cara, perché anche lui si sentiva una pianta percossa e inaridita… ma soprattutto, perché anche a lui, con la propria inutilità, la vita appariva ormai del tutto inutile.
Adesso che dal prezioso scrigno dei suoi affetti più veri era stata rapinata una perla, ne erano rimaste solo due ad illuminarsi a vicenda l’orizzonte chiuso e spopolato, ma prima o poi il brutale delinquente avrebbe colpito ancora, lasciandone una sola.
Di nuovo rabbrividì, al pensiero di poter essere lui, quello.
Sarebbe stato peggio che finire i propri giorni nelle segrete di un castello medievale, senza nemmeno un boia a ricordargli d’esser vivo.
Però sarebbe stata una disgrazia terribile anche ridursi ad una larva, con la moglie costretta a fargli da badante.
Gliel’avrebbe risparmiato volentieri, se ora il destino avesse accettato di prendersi anche lui, ma doveva dargli una mano, per non sbagliare. E per quanto grave, poi, potesse essere la perdita anche per l’amata consorte, a lei la vita avrebbe tuttavia ridato un senso.
Era più giovane e aveva ancora saldi legami ad un mondo esterno più rigoglioso e puro del suo, ne aveva anche diritto, in fondo.

Ma ci voleva coraggio, e neanche tanto per l’atto in sé, che sarebbe stato solo un attimo, quanto piuttosto per dopo: per l’eternità.
Cavolo, se nelle storie dei preti c’è anche solo una briciola di verità, è da folli aprirsi lo sportello della fornace da soli. Già è insopportabile la sofferenza di questa valle di lacrime, benché si sappia che prima o poi finisce, rischiarne una versione eterna è incoscienza pura!
Sempre che i preti non si siano bevuti il cervello, con le loro storie: onnipotente ed infinitamente misericordioso… ma dai!
Ma dai un corno: l’intelletto non può comprendere tutto.

Se la prese col Padreterno, che è il creatore di ogni cosa ed anche l’autore delle regole del gioco.
“Se uccidere è peccato mortale, all’inferno ci dovresti essere Tu dalla creazione del mondo!” Lo sfidava, ma Dio taceva.
”Che bisogno c’è dell’amore, se il prezzo è questo? Ti piace soffrire? Ma a noi no, e se Tu sei masochista, noi cosa c’entriamo?” Lo sbeffeggiava, ma Dio taceva.
“Allora Tu sei anche il male, se tutto è in Te. Oppure non è vero che l’hai sconfitto e precipitato all’inferno fin dal principio del tempo.” Lo provocava, ma Dio continuava a tacere.
Ci si sarebbe azzuffato, se lo avesse potuto vedere.
“E vieni fuori che ho voglia di suonartele, porca miseria! Combatti da uomo anche Tu, visto che costringi noi a scannarci anche solo per sopravvivere!” Ma qui gli venne d’improvviso in mente che forse è proprio questo il senso del Cristianesimo, allora il vecchio sospese le ostilità con una punta di rammarico frammisto a timore.
“Perdonami. – Pensò – Gesù è innocente, e se davvero sei Lui, in qualche modo che non capisco anche Tu lo sei.”
Poi si calmò, e cadde in un sonno profondo.

Si svegliò con il dolce miagolio nelle orecchie di quando Fly lo chiamava per la colazione, ma gli unici suoni erano dei preparativi della moglie per recarsi a scuola.
La raggiunse che si stava coprendo col trucco le tracce del pianto, e si abbracciarono senza parlare.
Quando lei se ne fu andata, prese a gironzolare per casa immerso in pensieri cupi. Passava in rassegna i ricordi di tutta la vita senza trovare nulla, al di fuori della famiglia e di Fly, per cui fosse valsa la pena tutto il daffare che s’era sempre dato. Ma la famiglia era ormai ridotta ad un arbusto rinsecchito, e Fly non c’era più. Per quanto la mente gliene ricreasse la presenza in ogni atto che compiva, lei non c’era più.

Si affacciò alla terrazza con le lacrime agli occhi.
Nel boschetto dietro casa, la primavera riempiva l’aria dei profumi freschi e dei suoni allegri del risveglio. Eccitate, le nuove generazioni degli uccelli assaporavano la vita gorgheggiando nel gioco frenetico all’eterno ritorno.
Lui aveva perso, a quel gioco, Fly, poverina, non aveva potuto nemmeno partecipare.
Pensò alle immense schiere degli sconfitti e degli esclusi con un sentimento di mesta partecipazione.
I grandi alberi davanti a lui si ergevano forse fino all’ottavo piano, di sicuro al settimo: due più del suo. Stavano rinverdendo, ma le foglie, non ancora fitte come d’estate, non coprivano del tutto il paesaggio.
Il parco era uno dei maggiori pregi della casa. Lui e la moglie se ne erano innamorati anche per questo, quando ancora la stavano scegliendo.
Nelle stagioni in cui il rigoglio della natura non nascondeva tutto, si godeva anche una bella vista sulla città dalla sua terrazza, con San Luca che svettava in lontananza tra le fronde rade. Ma lui poteva solo immaginarla attraverso le descrizioni amorevoli della moglie, adesso che davanti al suo sguardo le cose erano divenute ombre indistinte nella maledetta foschia che le sbiadiva ogni giorno di più.
Adirato di nuovo con Dio, diede un calcio al parapetto come per darlo a Lui, ma ancora una volta Dio si sottrasse alla rissa e tacque.
Il vecchio guardò giù.
Concentrandosi su piccole aree centrali del campo visivo, riusciva ad intuire, uno alla volta, gli arredi del giardino.
Se avesse scavalcato il muro, avrebbe provato per qualche attimo l’ebbrezza della libertà assoluta. Il piacere supremo del volo senza catene nell’aria pura, che tante volte aveva sognato, poi finalmente la pace del nulla.
“Il nulla può bastare, visto che il Paradiso ha tutta l’aria di una pia illusione. Non vale davvero la pena sperarci, con le premesse di questo mondo dove la spirale del male si avvolge senza fine per quanto impegno uno metta a spezzarla…

Ma se poi l’esistenza continua davvero? Anche solo andare avanti in eterno come adesso sarebbe un vero inferno.”
E altro che ebbrezza di libertà! Non ci sarebbe stato proprio niente di esaltante in quella caduta… folle terrore, invece, molto, da far sembrare lunghissimi i pochi istanti che sarebbe durata… Poi, dopo il terrore impotente… SPATAPAAAMMM!!! La botta micidiale e per niente elegante, che magari non lo avrebbe nemmeno accoppato subito.

No. Non sarebbe servito a nulla sfracellarsi là sotto, sullo scivolo dei bambini o sulle panche delle nonne, se non a portare l’orrore nelle loro chiacchiere durante i giochi dei nipoti.
Un atto assolutamente vano; proprio il contrario dell’aspirazione che lo aveva sempre animato: servire! Spendersi per le persone e la collettività, contribuire al progresso di tutti… Desiderava essere ricordato per ciò che di buono avrebbe lasciato dietro di sé. Un discreto tesoretto di impegno e d’amore, secondo lui, niente che valesse una parola d’augurio per la pensione il giorno dell’addio, secondo il mondo.
Ma appunto per questo, la sua uscita di scena non doveva essere la noiosa lagna dell’ultima sconfitta, come sarebbe stato l’oscuro schianto sulla pace del giardino condominiale che gli era venuta in mente.
Il meritato riscatto doveva essere! Qualcosa di simile allo sparo di Tenco… o almeno al suo grido lacerante: un monito perenne alla coscienza dei giusti contro il cinismo e l’infedeltà.
Non che anche in quel modo si aspettasse il trionfo improvviso della giustizia, ma di portare un altro mattoncino al suo edificio sì, e mattoncino dopo mattoncino, da quando al mondo c’era chi voleva farci un magnifico castello, la costruzione era cresciuta un bel po’.
Non l’aveva, però, una pistola, e in ogni caso anche spargere sangue e pappa di cervello sui mobili per il maggior raccapriccio della moglie gli sembrava assai poco elegante.
Povera Tata! … Lei gli voleva bene e non aveva alcuna colpa dei suoi naufragi. anzi, era il suo unico successo umano, la sola perla del diadema rimasta ad illuminargli la rotta, e al tempo stesso l’approdo sicuro dove dirigerla. Non meritava di sicuro l’orrenda accusa che un gesto simile le avrebbe rivolto suo malgrado.

Il vecchio si tranquillizzò un poco.
Pensò che aveva avuto altre volte dei pensieri cupi senza veri impulsi di autodistruzione, perciò forse anche quel giorno aveva solo bisogno di distrarsi un po’.
Una bella nuotata gli avrebbe rinfrescato le idee scacciando la depressione con la fatica, e dopo, anche lo struggente ricordo di Fly avrebbe potuto iniziare il cammino verso la quieta terra dei numi tutelari per mutarsi in culto e speranza fiduciosa.

Portandosi verso l’altra estremità della lunga terrazza per abbassare la veneziana, inciampò in una robusta corda che sporgeva da sotto il tavolo di plastica per cenare all’aperto nella bella stagione.
Dovevano averla dimenticata gli operai che la settimana prima avevano portato i mobili nuovi della sala con la piattaforma aerea.
Poi il brutto tempo aveva sicuramente fatto rintanare in casa la moglie, che altrimenti se ne sarebbe accorta e le avrebbe assegnato un posto più acconcio, e quindi era rimasta là.
La raccolse, constatando che era piuttosto lunga.
Ci fece un nodo scorsoio ad un capo senza nemmeno rendersene conto. Era un’abitudine bizzarra che aveva preso da bambino, dopo aver visto un’impiccagione selvaggia in un film di cow boy. Tormentato dal ricordo della scena col lungo indugio sul cappio intorno al collo del malcapitato, aveva provato a riprodurne lo strano nodo come per liberarsene, e dopo il primo successo, aveva preso a ripetersi meccanicamente quasi ogni volta che gli capitava una corda fra le mani.
Mise questa nella sacca da scarpe del borsone sportivo con l’intento di riporla nell’autorimessa al ritorno dalla piscina; prima di andarci no, perché altrimenti avrebbe perso la coincidenza dell’autobus alla Stazione Mazzini, e con la coincidenza, a volte si perdeva anche più di mezz’ora a quella fermata.
In autobus, ripensava in trance alle lunghe attese alla base del ponte di mattoni su cui la vecchia ferrovia che unisce alla Toscana scavalca la Via Emilia. L’alta velocità ci passa proprio sotto in una moderna galleria, e raggiunge silenziosamente la stazione centrale come una costosa metropolitana fra Bologna e Firenze.
La stazioncina in ferro è situata proprio sull’arco del ponte a cavallo della strada, abbarbicata alla sua struttura antica come una gigantesca pianta rampicante azzurra.
L’avevano costruita contemporaneamente alla linea sotterranea quando il vecchio abitava ancora là vicino, ma dei lavori dell’alta velocità non s’era mai accorto nessuno, e la Stazione Mazzini era stata aperta al pubblico solo dopo il suo trasferimento, perciò non aveva mai avuto occasione di andare a vederla.

La Via Emilia è il cuore dell’intera regione; c’è sempre un gran traffico sotto il ponte della Stazione Mazzini.
Il vecchio pensò con una smorfia truce all’effetto che avrebbe fatto sui passanti veder precipitare un uomo dal ponte e rimanergli penzoloni davanti agli occhi.
C’era il rischio di qualche piccolo tamponamento, ma nulla di grave, perciò non era il caso di farsi degli scrupoli.
Invece, quello sì che sarebbe stato un ammonimento da far venire i brividi!
Purtroppo l’eco sarebbe svanita in fretta, se è vero che in questo mondo perverso ci si dimentica in un amen anche dei crimini più efferati e degli attentati con centinaia di vittime innocenti, ma almeno l’avrebbero avuta sulla coscienza per sempre, quelli che l’avevano trascinato fino a quel punto.
I politici che l’avevano fatto quasi fallire per non aver assecondato la loro corruzione, i magistrati che li avevano coperti rendendosi complici della corruzione e dei ricatti, gli imberbi calunniatori che gli avevano guastato gli ultimi anni di un’onesta carriera per degli oscuri motivi, i velenosi serpenti dagli oscuri motivi dietro di loro, l’ispettore infedele che aveva accolto la ridicola accusa di “attribuzione dei voti senza una giusta attribuzione dei voti” per non indagare sulla misteriosa ubiquità dei serpenti velenosi: capaci di essere presenti al tempo stesso a scuola e nel loro nido.
………
“E forse anche Tu, se è vero che ci ami.”
………

Finalmente ci sarebbe andato, quel giorno, a vedere la stazioncina sospesa.
Peccato doverla consegnare alla storia con la fama odiosa di forca come il ponte dei Frati Neri di Londra, ma questa volta, la morte auto inflitta in pieno sole ne avrebbe fatto una tribuna infuocata contro l’ingiustizia, e in questo modo, la “Stazione dell’impiccato” sarebbe diventata un marchio indelebile, nella coscienza della città.

Il vecchio salì le scale del marciapiede Est. A quell’ora, il sole saliva ancora ad oriente, e col viso rivolto a lui, il monito sarebbe stato ancora più terrificante, per coloro che venivano dalla parte del mare.
Sul suo marciapiede non c’era nessuno all’infuori di lui; sull’altro, solo una donna velata che teneva per mano due marmocchi irrequieti.
Il vecchio si sforzò di precisarne i contorni pur nella nebbia dei suoi occhi che tutto sfumava; in quella luce gli riusciva abbastanza, se li inquadrava bene nella minuscola finestra rimastagli sul mondo.
L’aspetto della donna era indecifrabile, sotto tutti quei tendaggi, ma poteva essere anche attraente, stando alle forme che questi prendevano con certi movimenti, in ogni caso era senz’altro molto giovane.
I bimbi sembravano gemelli. Entrambi paffuti e sui tre o quattro anni, mettevano a dura prova l’energia della madre tirandola di peso di qua e di là. Dicevano cose incomprensibili ed erano simpatici, con il loro cipiglio volitivo.
Un vuoto gigantesco nell’album esistenziale del vecchio che solo Fly aveva saputo colmare.
Consultò gli orari per vedere quando sarebbe passato il loro treno: non voleva mostrare le proprie intenzioni prima che divenissero inevitabili.
C’era ancora un po’ di tempo, tanto che prima sarebbe passato un altro treno senza fermarsi, di conseguenza si mise ad ispezionare le balaustre per scegliere il punto più adatto a fissare la corda.
Guardò in strada il traffico che veniva da levante; la fila ininterrotta di veicoli avanzava lenta ed ordinata come sempre.
Aveva un gran peso sul cuore. Sarebbe stato bello essere al parco a giocare sull’erba con dei nipotini vispi come i bimbetti sull’altro marciapiede che sentiva fare i capricci alle sue spalle. Invece era alla Stazione dell’Impiccato, a fare in modo che il posto potesse guadagnarsi il fatidico nome.
Provò una fitta lancinante al pensiero della moglie. Gli sembrava quasi di vederla: con l’espressione sconsolata e le braccia protese verso di lui nella preghiera di non farlo, e lo addolorava mortificarla come se non apprezzasse il suo amore, ma era sicuro che la sua cara Tata lo avrebbe capito. Aveva bisogno di lei e della sua devozione più dell’aria che respirava, per vivere; ma bisogna pur vivere nel mondo, ed era contro il mondo intero che lui si ribellava, contro la diabolica malvagità che vi alberga, e nemmeno gli infiniti sacrifici dei giusti come lei riescono ad estirpare.

Lo confortò un poco rivolgere l’immaginazione ai momenti più belli vissuti con lei e Fly in quella sorta di trinità terrena che li aveva uniti.
Forse adesso si stava cacciando in un guaio persino peggiore della vita mondana, ma era troppo crudele per crederci davvero. Forse andava incontro al nulla assoluto, invece, o forse addirittura alla felicità tanto agognata… Allora avrebbe rivisto Fly in tutto lo splendore della nuova luce senza foschie, e insieme, essi avrebbero atteso l’adorata mamma per ricostituire in eterno il diadema perfetto.

Il fischio del treno lacerò l’aria contemporaneamente al grido agghiacciante della donna ed al pianto di un bambino.
Il vecchio si volse con un sussulto. Uno dei piccoli strillava in mezzo ai binari, la madre teneva per mano l’altro sul bordo del marciapiede gridando qualcosa e gesticolando verso di lui. La poveretta non poteva scendere a recuperare il figlio sfuggito al suo controllo senza mettere in pericolo anche l’altro, sia che se lo trascinasse dietro, sia che gli lasciasse la mano.
Doveva farlo lui. Rischiava di brutto la vita, ma l’unico inconveniente pratico ai suoi piani che avrebbe comportato perderla sarebbe stato il futuro nome della stazione e tutto sommato, “Stazione dell’Eroe” sarebbe stato anche più bello dell’altro.
Questi pensieri fuori controllo gli balenarono in testa con la velocità della folgore, e tuttavia la sua corsa non li attese. Nonostante l’età, balzò fra i binari ancora più rapidamente, perché ormai il treno era a non più di cento metri.
Nel momento in cui posò le mani sul piccolo, la locomotiva era già grande davanti a loro, e fischiava a più non posso. Se lui avesse avuto delle difficoltà a sollevarlo, sarebbero stati travolti entrambi.
Terrorizzato, il bambino gli si aggrappò addosso ostacolandogli i movimenti. Era più pesante di quanto lui si aspettasse, tanto che si sbilanciò un poco in avanti fin qusi a cadere a sua volta. Allora fece appello a tutte le risorse da antico sportivo che coltivava da sempre, e, col cuore in gola, riuscì appena in tempo ad uscire col bambino in braccio dalla traiettoria fatale della macchina sferragliante.
La madre gli si buttò ai piedi bagnandoglieli di lacrime, mentre il treno ancora transitava davanti al marciapiede.
Pallido, e con la testa completamente svuotata di ogni pensiero, le riconsegnò come un automa il figlioletto ascoltando il gran fragore dei vagoni come un messaggio arcano.
Poi fu di nuovo il sommesso rimbombo del traffico di sotto.
La donna gli diceva parole che lui non comprendeva, ma fra le risa ed i pianti di ogni essere umano; i bambini gli si aggrappavano ai pantaloni come ad un padre, e furono le emozioni universali di questo linguaggio dei sentimenti a risvegliarlo d’improvviso dal suo incubo terribile.
“Ma che cazzo volevo fare?” Si domandò, quasi che ora fosse un altro. Poi si liberò gentilmente della gratitudine vociante che lo circondava e attraversò di nuovo i binari per andare a riprendersi il borsone. La sua Tata stava per ritornare dalla scuola, e non voleva che fosse sola, col triste rimpianto di Fly.

Un leggero piagnucolio lo fece volgere di nuovo per un ultimo saluto, ma i suoi protetti non c’erano più.
Seduto vicino all’imbocco delle scale, invece, un gatto rosso con le orecchie da lince lo guardava miagolando dolcemente.
Papà gli sorrise fra le lacrime accennando ad attraversare di nuovo i binari, ma il micio si alzò e scomparve giù dalla rampa scuotendo la coda ritta come un gaio arrivederci.
Il papà di Fly accennò un saluto avviandosi a sua volta verso l’uscita.
“Grazie, Angelo mio!” Ripeteva fra sé.
FINE