IO SCRITTORE

Amici Lettori, buongiorno. Vorrei proporvi i miei libri di narrativa, e siccome anche il prezzo conta, anticipo subito che in fondo a questo articolo ho inserito gli indirizzi dei punti vendita on line dove è più conveniente. Ma per il resto, desidero soprattutto presentare me stesso.

Mi definisco scrittore a bassa voce, sia perché il titolo è importante ed esige un pubblico adeguato, sia perché sono ingegnere, e pertanto addestrato ad altro. Tuttavia scrivo ormai da molto tempo, inoltre ho ottenuto di recente alcuni lusinghieri riconoscimenti con il mio ultimo romanzo, “Il professor Battista”, di conseguenza penso di poter finalmente entrare nel “club” senza più complessi.

Non sono un lettore “seriale”, o meglio, non lo sono più da quando le esigenze di sopravvivenza mi hanno precluso questo piacere, ma non ho mai smesso di scrutare gli infiniti universi della letteratura, anzi, è proprio così che ho fatto il mio faticoso apprendistato.
Da bambino, appena ebbi imparato a leggere m’innamorai di Dan Dare e Cocco Bill, e quando non bastarono più ad alimentare il nuovo fuoco in me, ci aggiunsi anche i Grand Hotel che mia sorella lasciava in bagno. Per fortuna, però, la biblioteca comunale era vicina e così, alle lacrime di pena per tutti quei cuori infranti si sostituirono presto quelle dal troppo ridere per le avventure di Tom Sawyer ed Huckleberry Finn. Mio padre se ne accorse subito, ma essendo un padre d’altri tempi, invece di rompere il muso al bibliotecario per i miei pianti mi portò l’intera collana di libri per ragazzi della amz, dove allora lavorava, compresa un’edizione illustrata della Bibbia. Imparai tutto su Tartarino di Tarascona, Cyrano de Bergerac, i dinosauri, Gengis Khan e le peripezie degli Israeliti, tanto che ci feci un gran figurone col parroco, con grande orgoglio di mia madre, una volta che, a Messa, mormorai fra i denti il nome di Nabucodonosor mentre stava per dircelo lui a proposito del re che aveva distrutto il tempio di Salomone.
All’epoca s’affacciava alla storia l’era spaziale, che con i Russi già in orbita mentre i missili americani ancora scoppiavano sulle rampe o poco più su, mi appassionava quanto Mark Twain e Sansone. Iniziai a galoppare fra le stelle con la fantasia in attesa di arrivarci anche di persona, e poiché già tendevo a rimescolare nel cervello piccole conoscenze e grandi sogni, quando il maestro Busacchi spiegò la forza del vapore, tentai di fargli credere in un tema che nel garage avevo costruito un missile proprio così, e poi lo avevo anche lanciato con successo: l’ingegnere e lo scrittore si stavano contendendo il mio futuro fin da allora.
Ascoltavo i giornali radio a bocca aperta immaginandomi astronauta, e quando mi accorsi che il giornalaio aveva tante belle riviste sull’argomento, presi a fargli visita tutti i giorni per sfogliarle a sbafo. Fortunatamente era un brav’uomo e mi sopportava, così imparai tutto anche su Sputnik ed Explorer, Yuri Alekseevic Gagarin, Alan Bartlett Shepard e via dicendo, fino alle soglie dell’adolescenza.
Nell’età ribelle, profondevo molto impegno a fare di tutto tranne che studiare, anche perché i miei genitori avevano una cartolibreria, e in quel tutto, oltre allo sport, era compresa l’opera omnia del negozio. Più di tutti mi divertiva Sir Pelham Grenville Woodhouse, che è l’unico autore a cui ho perdonato i romanzi scritti in serie grazie alle irresistibili risate che mi strappò fino all’ultimo; ma non mi feci mancare nulla: tra saggi di ogni genere e caotiche scorpacciate di quant’altro stava sugli espositori, da Salgari a Giulio Verne, da Simenon a Stout, Poe, Conan Doyle, Wagner, Ibsen e tanti altri, credo di aver letto anche cose che nemmeno capivo.
Lì per lì, ciò non mi valse la considerazione dei miei professori, che al terzo anno di liceo mi rimandarono in tre materie solo per evitare un coccolone a mio padre con una bocciatura secca, decisi però a completare l’opera a settembre. Poi, invece, il loro giudizio mutò radicalmente al termine degli esami di riparazione. Avendo studiato, li avevo superati bene, e dopo l’ultimo orale, non ricordo perché, m’ero intrattenuto in dotte chiacchiere con il prof di religione sulle migrazioni dell’era glaciale, sostenendo che c’era stato un passaggio di popolazioni asiatiche in America grazie al ponte di ghiaccio che s’era creato nello stretto di Bering. Non c’entrava per nulla con le materie del corso, ma sono convinto che se da allora registrai un netto miglioramento della mia reputazione, fu soprattutto grazie alle vetrine dei miei cari vecchi.
Intanto mi accorgevo di essere più ricco di Carlo Magno. Infatti potevo aspettarmi di vivere il doppio, e volare in America in poche ore, mentre a lui non sarebbe stato possibile nemmeno per scampare alla peste, e benché sapessi che anche le grandi conquiste scientifiche affondano le radici nell’immaginazione pura, al momento di scegliere la facoltà universitaria ciò fece prevalere l’ingegnere.
Durante l’università mi fidanzai, e così, fra le equazioni differenziali e la passione, la letteratura finì un po’ in disparte, anche perché Boringhieri pubblicava dei libri sulla relatività, i buchi neri e cose del genere, che un ingegnere non poteva ignorare. Ma quando poi si aggiunsero anche il pendolarismo e le faccende domestiche dei primi anni di lavoro, le belle lettere sprofondarono addirittura in cantina.
Inaspettatamente, a salvarle dall’oblio fu proprio l’approdo in quell’industria aerospaziale tanto agognata, che per i suoi fitti impegni avrebbe potuto seppellirle del tutto. La risalita, infatti, iniziò lentamente con la fantascienza di Urania nei lunghi viaggi in treno del venerdì e della domenica sera, e la notte che mi appisolai su una guerra di mondi, saltando Bologna dove lei mi attendeva, si concluse col dramma perdendo l’amore. Ne pagai a caro prezzo il ritorno, ma furono Alice e Don Chisciotte, Papillon, Sigfrido, La donna del mare, Jean Valjean ed il loro popolo intero, gli amici delle serate che scorrevano solitarie col gelo nell’anima. In compenso, tra un cappellaio matto ed una rivoluzione dei maiali, scoprivo anche in me una vena surreale strettamente imparentata alla più lucida razionalità. Così, impressionato dalla stoltezza che noi umani mettiamo a volte nel cercare lontano le cose sotto i nostri occhi, scrissi la cronaca del primo contatto con gli alieni che, essendo pidocchi, e stufi della nostra guerra chimica, nell’impossibilità di un accordo di “buon vicinato” avevano distrutto la nostra civiltà.
A parte il ricco epistolario intrattenuto fin dall’adolescenza con l’altra metà del cielo, spesso altrettanto squinternato, questo raccontino era il mio primo “capolavoro” letterario, visto che gli articoli sulle turbine a gas non c’azzeccano per niente.
Abusando dell’amicizia, costrinsi un collega a leggerlo e darmi un giudizio. Non era una persona qualunque, ma uno che definire “con due p—e così” sarebbe ingiustamente riduttivo, infatti, pur essendo un primate conosceva l’aerodinamica meglio di un falco pellegrino, e certo un tipo così era di quelli che non si classificano mai meno che eccellenti dalle elementari all’università, eppure io m’ero approfittato di lui senza ritegno per dei pidocchi. Il fatto che nonostante ciò siamo tuttora buoni amici è una cosa di cui gli sono grato.
“Sei riuscito a non annoiarmi”, fu il suo implacabile giudizio sull’ingarbugliato manoscritto, ma non me la presi, perché avevo capito che era una schifezza già mentre lo scrivevo: era troppo ingolfato dalla preoccupazione di riempire fogli che aveva condizionato la mia stesura da novellino. Comunque rimanevo del parere che l’idea di fondo fosse abbastanza buona, per gli amanti del genere, e dopo una drastica potatura da una dozzina di pagine a quattro, all’apparire di internet ne ebbi più di una conferma in rete, molti anni dopo. Si trattava di episodi sporadici, però: prima che mi accorgessi di aver scritto ormai tanto, e che anche gli addetti ai lavori iniziassero ad apprezzarne il buono, la fila degli anni doveva allungarsi anche di più.
Finché restai con la testa fra le nuvole, accumulai molte delle esperienze che mi avrebbero ispirato in seguito, ma non ebbi modo di scriverne un gran che. La dolorosa interdipendenza fra la vita professionale e l’infruttuosa ricerca di una nuova felicità sarebbe divenuta una spinta potente a suo tempo, ma per il momento macerava in silenzio nelle storielle impossibili che mi s’affacciavano alla mente di tanto in tanto, allorché un frammento di cielo incrociava le mie vie riaccendendo le emozioni per un po’.
Occorreva uno stacco totale, e lo decise il destino con un pauroso incidente d’agosto.
Nessuno in città a sollecitare la mia scienza; nessuno a farmi compagnia tranne i due piccioni che tubavano nel nido proprio sopra l’ingresso dello studio; nessuno che mi pagasse un’auto nuova, o i debiti che avevo fatto per avviare quell’attività professionale… non potevo mica stare seduto tutto il giorno davanti al computer a progettare un bel viaggio nell’Isola che non c’è! Però potevo “progettare” storie.
I miei primi racconti di ampio respiro nacquero in quel torrido agosto insieme ad alcune cronache sparse. Un paio di queste furono accolte benevolmente sulla stampa locale, e “Salmoni”, un viaggio surreale di due amanti da una capanna di tronchi nei pressi di Oslo alla loro reggia di ghiaccio e madreperla nell’estremo nord, suscitò impressioni ed accostamenti lusinghieri. Una piccola casa editrice bolognese mi propose di scrivere un libro per ragazzi, ma il mio surrealismo è piuttosto meditato, e non avendo una prole da cui imparare, declinai l’offerta.
Viaggiavo ed imparavo molto, invece, del mondo e della natura umana, finché un’esperienza forte di volontariato in Africa mi ispirò “Karìbu”: un romanzo diviso fra realtà ed immaginazione – come la vita stessa lo è fra veglia e sonno – teso a cogliere nell’amore l’essenza comune di tempo ed eternità.
Buoni giudizi, persino di Mondadori, ma la qualità non basta a pubblicare un libro, perché molti altri requisiti la soverchiano, rendendo la dischiusa di un esordiente una lotta impari. Fra questi, la notorietà dell’autore è il principale per molti editori, arrivando a vanificare del tutto il merito nelle loro graduatorie. Non faccio nomi per non attirare vendette che potrebbero affossare le mie aspirazioni, ma, per esempio, uno dei maggiori successi editoriali italiani è il peggior libro che io abbia mai letto. Scritto dal capo di una setta religiosa molto seguita negli Stati Uniti, aveva già rifilato venti milioni di copie agli adepti in quel paese, e, a mio avviso, fu solo in virtù dell’imponente campagna pubblicitaria fondata proprio su quel successo che ne vendette un altro milione in Italia. Infatti è una tale accozzaglia di banalità di poco senso, scarso costrutto e nessun valore, da non consentire altre spiegazioni di tanta popolarità.
C’è un detto che recita: “Se vuoi fare soldi, fonda una religione”, e visto che in Italia esiste (o esisteva) almeno una casa editrice solo per Sai Baba, probabilmente è vero, ma allora è come se il libro di cui sopra fosse l’autobiografia di Gesù delle Paoline… e quale esordiente potrà mai vantare i “followers” di Gesù?
Tuttavia, non dico che la categoria sia negletta del tutto. Mondadori assicurò ripetutamente di essere alla ricerca di una collocazione per Karìbu, e quando infine rinunciò, fu perché non era riuscito a trovare una collana adatta fra tutte le consociate. Come il caso del filone religioso appena visto, infatti, un altro requisito fondamentale per pubblicare con un editore che voglia vendere sul mercato è che il libro appartenga ad un genere preciso, che convogli su di esso l’interesse degli appassionati, e in effetti, Karìbu è, sì, un incrocio di avventura, amore, spiritualità e fantascienza, però non compreso del tutto in alcuno di questi generi. Secondo un autorevole giudizio, è un romanzo “filosofico”, piuttosto, ma nonostante l’appassionata ricerca esistenziale del protagonista, io per primo non mi azzarderei mai ad accostarne le elucubrazioni da viandante dell’anima all’opera di Sartre o Camus.
Senza il sostegno di una casa editrice, dunque, rompere il guscio sembrava proprio una lotta impari, ma sapevo di poter dire qualcosa di più intelligente anche di alcuni che lo avevano già rotto, ed ero deciso a migliorarne l’arte abbastanza da farmi ascoltare, perciò raccolsi il guanto, e pur senza alcuna certezza affrontai la sfida. Il duro lavoro che seguì comincia a dare i primi frutti solo ora, come chiarirò più avanti, ma ci sono ancora molti passi da fare, prima di arrivare fin qui.
Grazie al Cielo, l’avvento della stampa digitale mi risparmiò la tentazione di affidarmi ad uno di quegli editori alla rovescia, che le loro pubblicazioni vogliono farsele finanziare dagli autori. Stampai invece in proprio un centinaio di copie di Karìbu, e le vendetti poi ad un’agenzia di viaggi, ad alcune librerie, ed agli intervenuti ad una presentazione presso la biblioteca comunale Lame di Bologna. Ma era stato un esperimento per capire i meccanismi della filiera: avevo ormai esaurito il mercato alla mia portata, e non potevo certo continuare a fare l’ingegnere, lo scrittore, il grafico, l’editore, il distributore, ed il libraio da solo. Allorché, quindi, Lulu.com prospettò di accollarsi gratuitamente i tre ruoli commerciali, salutai con entusiasmo l’editoria su ordinazione auto pubblicando il romanzo.
Intanto, l’ambizione di meritare un pubblico scrivendo bene delle cose interessanti mi spingeva da tempo a cercarne insegnamenti validi nei più grandi classici italiani e stranieri, nei premi Nobel e nei best seller mondiali. Sfortunatamente, non ho le attitudini della Rawlings e nemmeno di Wilbur Smith, però ho verificato che anche i temi più congeniali a me hanno una nutrita rappresentazione e schiere di lettori. Le invenzioni di interi meta mondi come sogni esistenziali, teatri della riflessione estrema, o parodie della dimensione temporale con la sua etica schizofrenica non si contano fin dai tempi biblici, e se ne avessi il tempo, leggerei all’infinito le avventure di Aragorn e Frodo Baggins nella Terra di Mezzo del “Signore degli anelli”, e del ”Doktor Faust” di Goethe con Mefistofele, Margherita ed Elena di Troia. Allo stesso modo, anche la trasposizione del proprio vissuto in racconti emblematici di affanno sociale, di travaglio storico, o anche solo di sé ha molti appassionati, e potendo, pure le crude pagine di Hemingway io sfoglierei ancora molte volte sulle tracce del suo tragico destino, e in ogni pausa del dovere, tornerei con Amir ed il fratello Hassan a caccia di aquiloni nei quartieri polverosi di Kabul.
La scomparsa di mia madre fra le sofferenze di una grave malattia mi ispirò un lungo racconto che descrive il passaggio nella terra degli avi come una piacevole passeggiata metafisica: augurio per tutti di vittoria definitiva sul male e la morte. Piacque tanto a chiunque lo lesse, che uno zio ci fece stampare quaranta copie di un bel libriccino, e me le regalò perché ne facessi omaggio agli amici come ricordo di me. Allora rividi tutti i racconti precedenti migliorandone un po’ lo stile, ne scelsi alcuni molto diversi, ma dalla comune tessitura fantastica, e li pubblicai da me presso Lulu.com col titolo “Racconti di Ultramondo”.
Seguì “Hakuna matata”: un manualetto di Kiswahili concepito durante la costruzione di un impianto di distribuzione dell’acqua in Tanzania, rivolto agli amici della solidarietà operanti in quel paese, nonché in Kenya ed Uganda, e a tutti quanti abbiano affari là. Ma si trattava solo di un intermezzo, e presto ricomparve la pulsione letteraria con un romanzo fortemente autobiografico intitolato “Il diario di Homunculus”. Come ben s’intende dal titolo stesso, io non mi ritengo affatto personaggio da biografie, ma la vicenda è un doloroso intreccio di vita professionale ed affettiva che denuncia come il potere uso a boicottare merito e verità quali minacce sovversive sia una grave pestilenza sociale che distrugge intere esistenze individuali con ingenti danni anche alla collettività, e per questo, a me pare assolutamente degna di essere raccontata a chi queste cose non le sa.
Volevo inglobare nel racconto alcune lettere e storielle di apparente nonsenso, che con amara ironia avevano tratteggiato dall’inizio quel triste periodo di attese tradite, ma questi scritti fanno numerosi riferimenti agli eventi dell’epoca, perciò scelsi per il libro la forma del diario, che con delle annotazioni dirette di tali fatti, lo avrebbe reso alla portata anche di chi in quel tempo non era ancora nato.
Il pubblico “campione” a cui sottoposi il romanzo reagì in vario modo. Io preferisco l’entusiastica recensione della rivista Biella Style e Motori, e la commozione di chi ne era stato protagonista nella realtà, ma ci fu anche qualche silenzio, ed un accenno di disagio per alcune crudezze in tema di sesso. Il comitato di lettura di un noto premio letterario lo stroncò senza pietà, e così, a parte ciò che preferisco, la mia opinione sul valore oggettivo dell’opera è un po’ confusa. Il cinismo di certe scene è voluto sia per fedeltà ai fatti, sia perché a mio avviso trasmette con tremenda efficacia il buio senso di perdizione dell’anima prodotto dalle vicende chiave della storia. Quanto al giudizio professionale emesso dal comitato di lettura al prezzo di un centinaio di Euro, devo dire che non mi parve professionale per niente. In un abbozzo di replica mai inoltrato scrissi: “… La scheda appare striminzita a prima vista, confermandosi alla lettura povera e superficiale, e rivela un tale scollamento dai contenuti del romanzo, da indurre a domandarsi se chi l’ha compilata ne abbia lette più di una decina di pagine a caso, o addirittura se abbia mai letto per intero un libro qualunque.”
A parte l’acida conclusione, sono tuttora dello stesso parere sulla recensione, anche se ciò non vuol dire che ritenga sbagliato il giudizio. Forse un giorno rivisiterò ”Il diario di Homunculus”, e magari lo riscriverò da capo, ma per il momento non mi sembra il caso. D’altra parte, come posso orientarmi meglio, senza il riscontro di un pubblico? Nonostante l’onnipotenza di Internet, di tutti questi libri auto pubblicati ho venduto ben poco più delle copie comprate da me, ma finché nessuno li conosce, non si può dare la colpa a cattiva reputazione dell’autore, che non ne ha alcuna. Per farsi conoscere occorre portare i libri in libreria, cioè avere un supporto di marketing che solo un editore vero può dare… se l’e-commerce non cambierà le cose.
Mentre speranze e delusioni tormentavano così lo scrittore che è in me, nel resto della vita si accavallavano le esperienze che avrebbero generato “Il professor Battista”: anch’esso un’accusa al potere che fa del sopruso un’arma di controllo e di sopravvivenza contro i giusti. Evidentemente, questa pestilenza ammorba il tessuto sociale in profondità, perciò combatterla con i libri non è solo una buona idea editoriale, ma un vero e proprio dovere civile.
Il titolo è un chiaro richiamo al predicatore del deserto biblico. Come lui, infatti, il protagonista è una voce scomoda che grida contro il lassismo, l’ipocrisia e l’omologazione che producono violenza ed ingiustizia, e come lui, egli è osteggiato iniquamente da un potere che di tali “virtù” è specchio fedele.
Questa volta la storia non è autobiografica, tuttavia gli episodi che la disegnano sono in gran parte veri e noti all’autore, il che fa del romanzo uno spaccato autentico della nostra società, nonché un’implacabile analisi dei mali che l’affliggono.
Finora, il libro è arrivato finalista nel concorso letterario “Mangiaparole”, inoltre ha ricevuto sei diverse proposte di pubblicazione e commenti molto favorevoli, fra cui la puntuale ed acuta recensione di Mauro Limiti, che si può trovare scorrendo un po’ all’indietro la mia pagina Facebook “Parole d’autore”.
Non ce n’è una, però, fra le proposte, di quelle case editrici che portano i libri in libreria, che io cerco, e se quanto ho scritto fin qui è vero, viene spontaneo domandarsi perché. Non lo so, ma ho un’idea su cui un caffè lo scommetterei senza problemi, e riguarda le parole omologazione e implacabile che ho usato poco più su. Omologazione è allinearsi all’orientamento culturale prevalente, e anche se non compare nei cataloghi, l’orientamento culturale prevalente è una di quelle “collane” di cui dicevo all’inizio, che tanta sicurezza danno a chi deve investire il proprio denaro sui libri di uno sconosciuto, ma d’altra parte, implacabile è chi non si allinea ad alcunché se non alle proprie idee… il resto vien da sé. Ma allora dove va a finire la libertà di pensiero?
Fortunatamente, il coraggio non è mancato ad una casa editrice digitale, perciò abbiamo sottoscritto un contratto, e “Il professor Battista” uscirà entro maggio in versione elettronica. Per l’edizione cartacea ho provveduto con l’autopubblicazione (ormai sono diventato un editore io stesso), e conto di riuscire a “rompere il guscio” anche così.

I miei libri si possono comprare in tutti i maggiori punti vendita on line. Di seguito ne suggerisco alcuni con i prezzi migliori:

KARìBU

Il professor Battista

VETRINA DI LULU

Grazie dell’attenzione, e a presto

Fernando De Benedictis

DRONI E CELLULE STAMINALI: UN CONFRONTO DI POLITICA ECONOMICA TRA EMILIA ROMAGNA E CALIFORNIA

Da diversi anni seguo attentamente i progressi della medicina rigenerativa nel mondo per un concreto interesse personale legato a certi miei problemi di vista.

Ieri ho letto che una società americana di nome jCyte sta iniziando la seconda fase di sperimentazione di un suo prodotto a base di cellule staminali che promette di restituire la vista ai ciechi. La fase uno è stata superata con pieno successo, e risultati preliminari che fanno sperare altrettanto bene per la due. Poi ne seguirà una terza, e se tutto va bene, in poco più di un paio d’anni si potrà cominciare a praticare su larga scala la cura “miracolosa”.

La jCyte è nata praticamente dal nulla grazie ai finanziamenti di DECINE DI MILIONI DI DOLLARI di un ente pubblico californiano, il CIRM, che aiuta così i migliori progetti nel campo della medicina rigenerativa a diventare concrete realtà industriali ad alta remuneratività.

Pur registrando con soddisfazione la notizia, non ho potuto fare a meno di ripensare amaramente ai casi miei ed alla situazione italiana, poiché qui le cose vanno molto diversamente ed io, ahimè, ne sono un testimone diretto.

Ho brevettato diverse idee, infatti, alcune delle quali pubblicate da importantissime riviste scientifiche, ma diversamente da quanto sarebbe accaduto negli USA, questa mia attitudine mi ha fatto solo dei gran danni.

Mi limiterò a citare il caso dei DRONI per lo stridente contrasto con la vicenda della jCyte, ma purtroppo potrei raccontare anche di peggio.

Nel 1986 brevettai un dispositivo per generare spinta aerodinamica con minor impiego di potenza (e quindi minor consumo energetico) delle normali eliche, e pubblicai un articolo in merito sugli ”Atti dell’Accademia delle Scienze di Bologna”.

Riflettevo già da tempo sulla possibilità di realizzare un drone, e quel dispositivo sembrava particolarmente indicato allo scopo, poiché in caso di successo sarebbe stato un ulteriore elemento di innovazione dell’idea del drone, già rivoluzionaria di per sé.

Nel 1987 aprii il primo studio di progettazione computerizzata tridimensionale di Bologna, e, previa consultazione con la dirigenza della Confartigianato, lo iscrissi in tale associazione.

Naturalmente avevo il problema di trovare dei clienti che capissero cosa offrivo loro, perciò, nella ricerca, esplorai anche il settore pubblico.

Mi imbattei così in una recente legge della Regione Emilia Romagna che stanziava fondi per lo sviluppo di progetti di innovazione tecnologica nelle imprese artigiane.

Stando al testo, la legge era allettante, poiché copriva abbondantemente anche i costi di progettazione, cioè proprio l’attività del mio studio. Calcolai che con quel finanziamento avrei potuto sviluppare il drone senza bisogno di dedicarmi ad altro per tutto il tempo programmato, ma poiché già allora non mi fidavo del modo come in Italia si gestisce il denaro pubblico, stavo già per rinunciare, e dedicarmi esclusivamente alle commesse esterne.

Sfortunatamente, però, ebbi una sponsorizzazione privata che mi avrebbe consentito almeno di iniziare, e poiché, d’altra parte, la funzionaria della regione che mi aveva proposto la legge insisteva che il finanziamento era pressoché certo a condizione di essere un’impresa artigiana con un progetto innovativo, alla fine cedetti alla tentazione imprenditoriale. In fin dei conti, all’artigianato ero regolarmente iscritto, e un progetto innovativo l’avevo, eccome!

La prima domanda fu respinta con la motivazione che il fatturato era troppo basso.

Ricorsi al difensore civico obiettando che l’azienda era stata appena aperta, e soprattutto che quel criterio di selezione non era contemplato nel bando.

La commissione si dimostrò molto contrariata dal ricorso al difensore civico

e suggerì di ritentare l’anno dopo.

L’anno dopo, la domanda fu respinta con la motivazione che il progetto era da ingegneri e non da artigiani, e la Confartigianato, chiamata in causa per questo, si fece di nebbia. Inutile sottolineare i legami politico-economici fra tutte le parti in causa, ad eccezione del sottoscritto.

Una successiva domanda di inserimento in un programma regionale di sostegno alle startup tecnologiche, che erano la naturale evoluzione del mio studio in un’azienda di prototipazione rapida con attività interne ed esterne di ricerca applicata, cadde nel vuoto perché la responsabile della commissione non “credeva” nei droni, e per non dirla così, spiegò che non ne avevo documentato l’impatto commerciale… E come cavolo avrei potuto “documentarlo”, visto che i droni non esistevano ancora?

Intanto gli affari dello sponsor avevano preso una brutta piega, tanto che non fu nemmeno in grado di far fronte all’ultima rata del contributo promesso.

Così il progetto dovette fermarsi alla prima architettura d’insieme, che si può vedere nell’articolo di Aeronautica e Difesa qui allegato, ed ai collaudi parziali dei relativi componenti.

Si potrà dire che il prototipo dell’articolo è piuttosto diverso dai droni attuali, ma all’epoca erano ancora di là da venire sia i motori elettrici adatti allo scopo, sia i relativi sistemi di controllo e regolazione, sia le telecamere Gopro, e inoltre il dispositivo di sollevamento era deliberatamente alternativo alle eliche, con lo scopo di sostituirle come ulteriore innovazione in caso di successo della ricerca.

In ogni caso eravamo in anticipo di decenni rispetto alla comparsa definitiva dei droni, perciò probabilmente saremmo stati i primi ad uscire, con un finanziamento come quelli che i buoni progetti ricevono in America, e forse anche con qualche pregio in più.

Viste le decine di milioni di dollari che il CIRM ha erogato alla jCyte, immagino che sia l’uno sia l’altra si aspettino un consistente e rapido incremento del PIL della California, quando la startup biotecnologica sarà in grado di commercializzare i suoi progenitori retinici per la cura della cecità….

Chissà quanto sarebbe l’incremento del PIL dell’Emilia Romagna, se adesso la regione potesse annoverare un’azienda leader nella produzione di droni e nella ricerca applicata, con tante altre idee nel cassetto, ancora migliori!

DV per FB

FLY

Fly vuol venire a letto IMG-20170312-WA0002[3062]

Pietosamente pulita e composta nella sua cuccia sotto una calda copertina di lana per alleviarne la sofferenza, la piccola micina sfinita emise un ultimo flebile lamento, quindi spirò.

Accovacciati accanto all’amato fagottino rosso, mamma e papà incrociarono gli sguardi impietriti, mentre le loro mani si rincorrevano nelle ultime, disperate carezze sul corpicino esanime come per trattenervi ancora un po’ il calore che se ne andava, e con esso la vita.
Lei scoppiò in un pianto dirotto, lui la strinse a sé per consolarla, ma aveva la morte nel cuore.

Per i vecchi coniugi senza figli, tutto l’amore che la vita offre come un frutto succoso per fingersi degna d’essere vissuta e farsi perdonare gli strazi a cui condanna s’era riversato a poco a poco su loro stessi e quella gattina venuta dal cielo vent’anni prima, concentrando gran parte della ragione stessa di esistere nelle tre perle preziose unite da un destino indissolubile.
Ma ora la vita aveva gettato la maschera senza più alcun pudore, e calando il temuto fendente sul nodo che teneva insieme le perle, ne aveva sfilato la prima.

Il vecchio pensò con raccapriccio alla possibilità di rimanere solo.
Indugiò ancora con la mano sulla testolina inanimata che tante volte gli si era intrufolata fra le gambe mentre lavorava al computer, e strofinandosi ad esse con affettuosa gentilezza gli aveva ricordato dolcemente che c’era chi aveva bisogno di lui.
Era questa certezza a riempire un po’ il vuoto che gli scavava nell’anima il penoso senso di inutilità nei confronti di tutto il resto del mondo.
Come un padre trova proprio nel sacrificio per la famiglia ed i figli l’unico scopo della sua esistenza, così il vecchio cercava la propria ricompensa esistenziale nella soddisfazione di sapersi a sua volta insostituibile sostegno di qualcun altro… Ma non ne aveva occasione con gli umani.
In casa, ultimamente era la moglie, semmai, ad occuparsi di lui, ormai quasi cieco, e quanto agli altri suoi simili, la mano tesa a quelli che ne avevano davvero bisogno era sempre afferrata da chi invece poteva far passare il gesto per una concessione sua, e ingrassare così col cibo rubato dal piatto degli affamati.
Persino il vescovo che era venuto a chiedere l’acqua per i quattromila parrocchiani del suo polveroso villaggio africano aveva tentato in tutti i modi di stornare il denaro dalle brocche per cose come i SUV che rappresentassero in modo più eloquente il suo potere, e non essendoci riuscito, quando alla fine l’acqua era zampillata gratuitamente dalle fontane sparse qua e là fra le capanne, s’era rivenduto l’impianto frutto di generosità ingannate a chi l’avrebbe fatta pagare cara.

Fly non conosceva inganno.

Fly era tragicamente sincera, quella torrida notte di luglio di vent’anni prima, mentre invocava disperatamente aiuto con il suo miao, miaoo, miaooo ininterrotto e sempre più debole.
Era sincera quella notte, né mai lo tradì.
Sono gli uomini che tradiscono. Fly non covò mai che amore, nell’accoccolarsi fiduciosa fra le sue braccia, quando lui se la portava al cuore per regalarle il rassicurante tu-tum, tu-tum che la madre le aveva negato dal primo respiro.

Era stato suo nipote Erech a darle quel nome.
Respinto dalla povera gatta inaridita, il minuscolo esserino rosso cui stava largo un palmo delicato di donna era precipitato nel cortiletto di sotto dal terrazzo al primo piano, e poiché era sopravvissuto per miracolo al volo mortale, il bambino, impressionato, l’aveva chiamato così.
Anche perché la rovinosa caduta notturna non era stata che l’acconto del salatissimo prezzo pagato dalla neonata per conquistarsi il nome ed un posto nel mondo. Al momento dell’investitura, la sera del giorno seguente, la piccolina aveva già combattuto e vinto altre epiche lotte più di un eroe greco, con la sola forza della sua indomabile voglia di vivere.

Impietosito dai lamenti, il villeggiante s’era alzato all’alba per darle un po di latte, e la cercava.
La gattina forse aveva ancora gli occhi chiusi e comunque non era certamente in grado di capire nulla, ma un potente e misterioso istinto di sopravvivenza la spingeva verso i richiami dell’uomo.
Dalla piccola aiuola rotonda dov’era precipitata, era riuscita ad arrampicarsi sul piancito superando lo spessore delle mattonelle di cotto, e lì arrancava verso quei suoni strisciando sulla pancia.
La testolina era poco più grande di una nocciola; l’enorme piede la sfiorò posandosi ad un paio di centimetri appena, senza che il gigante se ne accorgesse.
A quel tempo l’uomo riusciva ancora a vedere abbastanza bene, con le lenti a contatto, ma si aspettava di trovare un cuccioletto vispo e magari vistosamente colorato di bianco e di nero… non l’aveva proprio notato quel ranocchietto “spalmato” sul pavimento dello stesso colore, che non riusciva nemmeno a stare in piedi.
Per fortuna, dalla finestra la moglie osservava le operazioni con il suo proverbiale sguardo di lince, si avvide del pericolo appena in tempo, e con un urlo agghiacciante trattenne a mezz’aria il passo successivo del marito, riuscendo ad evitare la tragedia per un soffio.
Il gigante raccolse la cosina inerme con un tuffo al cuore.
L’aiuola da cui era spuntata era tappezzata dei frutti caduti dall’arbusto che vi cresceva, e le capsulette irte di spine, un po’ più piccole dei grani di pepe, le si erano attaccate al pelo dalla testa ai piedi peggio di zecche.
Come non bastasse la tremenda fame, ci mancava anche quest’altro insopportabile tormento per il tenero corpicino dal delicato pelo rossiccio!
L’uomo rivolse un pensiero risentito a Dio: “E che gravi peccati avrebbe mai commesso questo esserino qui?” Gli domandò bellicosamente, senza ottenere risposta.
Era in rotta con Lui, e non gliene mancavano le ragioni.
La mala sorte che si accaniva da sempre contro la sua famiglia come irridendo gli inutili affanni dei genitori per sottrargliela; quel grave problema agli occhi che minava dall’infanzia lui e la sorella insidiando il loro futuro; i figli che aveva tanto desiderato e che non erano mai venuti ad allietare i suoi giorni; la recente morte del cognato con il grande vuoto che aveva lasciato a moglie e figli, e la solitudine di lei, senz’altra eredità che i due bambini bisognosi di tutto, ed un lavoro precario per dar loro tutto ciò che poteva…
Era da tempo, infatti, che l’uomo soffriva di un malessere crescente per i mali del mondo, e non riuscendo a risolverne la contraddizione con un Dio onnipotente ed infinitamente misericordioso, tendeva a darne ogni colpa a Lui…
“Sempre che Tu esista, naturalmente!” Soggiunse con fare provocatorio, senza tuttavia ottenere risposta anche questa volta.

Le cure della sopravvissuta rubarono il mare a lui e sua sorella per l’intera mattinata.
Amavano gli animali perché li avevano avuti intorno fin da piccoli, loro; la moglie, invece, doveva ancora convincersi che esistessero davvero, dato che fino ad allora ne aveva visti solo in cartolina, perciò aveva preferito accompagnare i bambini in spiaggia.
Ma ad onor del vero va detto che prima di uscire s’era attardata un bel po’, ad osservare le operazioni di soccorso.
Per nutrire il gattino, che solo molto tempo dopo si scoprì essere una femmina, i fratelli gli davano con un contagocce latte e zucchero diluiti in acqua, e intanto lo liberavano dagli infernali granelli spinosi, ben attenti a non fargli ancora più male. Bisognava evitare di tirare i peli alla radice, per non strapparglieli insieme a quelle dannate palline puntute.
A questo scopo, se le inserivano sotto l’unghia del dito medio, bloccando i peli con il pollice contro il bordo dell’unghia stessa in modo da lasciare nel tratto esterno i grani spinosi, dopo di che li sfilavano con l’indice dai grovigli, tirando su quella stretta fra unghia e pollice anziché sulla pelle.

Al rientro dei bagnanti la disinfestazione era ancora a metà, di conseguenza quel giorno si pranzò molto tardi, ma nemmeno i bambini se ne lamentarono, ed anzi, ormai all’inizio di una profonda “conversione”, anche la zia volle accarezzare il piccino.

Non sapevano se era caduto dal terrazzo accidentalmente o se l’aveva spinto fuori la madre, e poiché la cosa migliore per il micino era che crescesse da gatto allevato dalla gatta, lo esposero alla sua vista sperando che lo riprendesse, e lei lo fece.
Quel pomeriggio la Calabria sembrò ancora più bella ai villeggianti felici del loro successo.
La sera, però, nel buio del cortile i miagolii risuonavano di nuovo, supplicanti e sempre più sommessi.
Preso dall’angoscia, l’uomo non poteva stare ad ascoltarli senza fare qualcosa. Andò in giro a rompere le scatole a tutto il vicinato per trovare una pila, e quando n’ebbe ottenuta una, si mise di nuovo in cerca del reietto per regalargli un po’ di calore.
Lo trovò in una pila di tavelloni accatastati contro un muro.
Era rannicchiato in un foro dei lunghi mattoni come nella galleria in fondo alla quale le anime dei morenti vedono finalmente la luce dell’amore.
Di fronte a tanto disperato attaccamento alla vita, l’uomo si vergognò di aver desiderato talora di morire. Raccolse con delicatezza il valoroso involtino tremante provando un altro violento tuffo al cuore, e comprese che nulla avrebbe mai più cancellato quell’emozione dai suoi ricordi più belli.
Fu dopo l’ultima poppata col contagocce al termine di quel giorno drammatico che Erech battezzò la gattina con il nome nobile e bello che l’avrebbe distinta per sempre.

Fly visse tenacemente anche dopo, offrendo sempre strazianti lezioni di dolcezza. Così gelava l’anima, facendosi trovare la sera dietro il frigorifero, in cerca del calore di cui aveva tanto bisogno sul metallo della serpentina, ma poi regalava anche la meravigliosa soddisfazione di sentirsi un rifugio accogliente e sicuro, quando s’arrampicava sul petto di chi ce la prendeva per nutrirla con gli occhi negli occhi e per darglielo col proprio corpo, quel calore, insieme al suono che l’aveva cullata ogni momento, finché era stata nel ventre confortevole della madre.

L’uomo e la sua amata consorte non avevano ancora deciso il loro destino di papà e mamma, quando si trattò di risalire al Nord.
Data la ancora scarsa propensione della moglie al pensiero di convivere con un animale, s’era rassegnato anche lui all’idea di dare Fly in adozione a qualche amico o parente che già ne aveva, ma per questo dovevano comunque portarla con sé, e così fecero.
Dormiva tranquilla, la micina, mentre risalivano la penisola in auto e lei stava nella gabbietta per passeri che era l’unico trasportino trovato in paese, ma poi s’appiattiva sulla pancia con le orecchie abbassate come supplicando di non abbandonarla, quando si fermavano per sfamarla all’aria aperta, e la facevano uscire fra le stoppie di un campo di grano.
I coniugi senza discendenza non osavano ancora dirlo, ma sentivano dal profondo che ognuno di quei gesti era un nodo in più al dolce legame col mite cuccioletto rosso, e che quel legame non si sarebbe sciolto mai più.
La conferma venne presto. Come ispirati da un destino che non voleva ostacoli al suo disegno, amici e parenti che avrebbero potuto adottare il micio declinarono gentilmente l’offerta con le scuse più ridicole, e così Fly entrò finalmente in casa sua.
Restava solo da conquistare il letto.
Attento ad assecondare il delicato adattamento della moglie evitandole dei mutamenti radicali all’improvviso, di notte l’uomo chiudeva la porta della camera, sapendola ancora impreparata a lasciare che un gatto le passeggiasse addosso durante i suoi sogni… ma infine fu lei stessa a volerla aperta “per respirare un po’ d’aria fresca”, e dopo che ebbe imparato a comprendere il linguaggio dei morbidi passi sul cuscino, non riuscì più a trascorrere una notte senza ascoltarne il sussurro.
Ma era maschio o femmina, quel batuffolo rosso che le impediva di dormire scompigliandole i capelli? In un gattino piccolo è difficile capirlo. Anche le due veterinarie dell’ambulatorio sotto casa davano versioni opposte, seppur entrambe con valide argomentazioni scientifiche. Un giorno, però, Fly mise d’accordo anche loro rivelandosi definitivamente la femminuccia che credevano i suoi grossi amici a due gambe, e con questa certezza, la consacrazione genitoriale della coppia s’era compiuta.

“Ma non sarà muta?” Domandò un giorno la “nonna paterna”, che non l’aveva mai sentita miagolare, e in effetti, Fly pareva averlo dimenticato.
Strappata all’abisso del nulla da mani umane che poi l’avevano profumata di coccole e latte in polvere, si credeva forse un bambino obbediente.
E proprio come il babbo di un frugoletto curioso, l’uomo si divertiva più che al cinema, quando in campagna lei lo seguiva passo passo tra i fiori dei campi scansando con cura erbacce e sassolini. Ma quando poi la micia osservava il traffico d’insetti intorno al rivolo d’acqua che spariva nel tombino, anche la mamma non si stancava di rimirare sorridendo la comica: somigliava più ad un ricercatore di National Geographic che a un sadico felino cacciatore, con quel suo oscillare la testa di qua e di là per seguire le “prede” una ad una senza muovere un piede nemmeno per grattarsi.
Quanto poi ad arrampicarsi sugli alberi, sembrava che Fly lo considerasse una bravata da ragazzacci di periferia.
Tentare di ricordarle che era un gatto era doveroso per dei bravi genitori, e in effetti gli umani che l’avevano adottata ci provarono in diversi modi, ma non sempre con i risultati sperati.
Il babbo riuscì a convincerla ad esprimersi di nuovo in “gattesco” miagolando lui stesso ogni volta che si sentiva al riparo dagli sguardi di chi potesse prenderlo per matto, ma non servì a nulla che rischiasse ripetutamente il suo ormai datato osso del collo scalando qualche alberello per mostrarle che oltre a farcisi le unghie ci poteva salire sopra… E nemmeno servì che la mettesse sull’albero lui, visto che ad ogni tentativo la micia saltava subito giù come se quello fosse l’albero proibito.
Invece balzava sui davanzali e faceva l’equilibrista sul muretto di un terrazzo, o fuori dalla ringhiera dell’altro, lungo vie immaginarie larghe pochi centimetri e tracciate quasi nel vuoto, che vedeva solo lei.
Papà e mamma tremavano, nel timore di vederla volare giù dal quarto piano come se volesse onorare il suo nome, immemore di quanto le era già costato. Volevano proteggerla, ma senza imprigionarla in un bunker privandola del suo sguardo libero sul mondo, misero allora reti ai terrazzi e zanzariere ai davanzali, e attraverso quelle grate sicure, seguivano il volo dei piccioni in cielo insieme a lei.
Facevano tutto il possibile perché la sua vita scorresse serena e al riparo dalla cattiveria del mondo.
Soprattutto, non la lasciarono mai sola.
Era tanta la pena per le sofferenze che la loro bimba aveva patito venendo al mondo, e per lo sgomento in cui doveva averla gettata l’abbandono della madre, che erano decisi a farglieli dimenticare per sempre come se ne sentissero la colpa su di sé, e volessero quindi ripagarla in tutti i modi per tanta inutile crudeltà.
Così la portavano con sé ogni volta che era possibile, e se, viceversa, nessuno dei famigliari più affidabili era in grado di andare ad abitare a casa loro per accudirla e tenerle compagnia durante un periodo di lontananza, rinunciavano anche a viaggi e vacanze. Restavano a casa anche loro, pur di non peggiorare il trauma della separazione “deportandola” nelle squallide gabbie di un albergo per animali, o anche a casa della nonna, che per quanto fosse un posto accogliente le era pur sempre estraneo.

Dal canto suo, Fly li ripagava giocando. Ciò potrebbe anche far sembrare puerili i due umani, ma allora tutti i genitori lo sono, visto che si divertono ai giochi dei figli più degli stessi bambini.
Dunque che c’è da ridire, se i due coniugi soli godevano della stessa gioia grazie alla loro gattina?
Lei giocava a calcio meglio di Maradona, anche se forse sperava che il “pallone” si tramutasse in un topo da un momento all’altro. Questo era una specie di tubero bitorzoluto fatto con tante palline di gomma di tutti i colori saldate fra loro a grappolo, che mamma e papà le avevano regalato in occasione di un Natale, e lei aveva subito apprezzato moltissimo. Lo inseguiva per la stanza passandoselo da un piede all’altro ad una velocità difficile da inseguire persino con lo sguardo, poi si fermava di botto ad osservarlo piantandoci contro il naso, gli dava un colpetto con un piede per fargli riprendere vita, e ricominciava daccapo finché il gioco non la stufava. Allora dava un calcio indispettito a quel topo così poco collaborativo spedendolo sotto un mobile, e se ne andava a dormire.
Adorava il basket, anche, e impazziva per il fruscio un po’ metallico della carta per dolci.
Appena papà alzava gli occhi dal computer e scartava una caramella o un cioccolatino per fare una “partita”, lei drizzava le orecchie ovunque fosse, e accorsa ai suoi piedi, lo fissava con gli occhi spalancati. Naturalmente lui non s’era nemmeno sognato di cestinare la pallottolina prima di quel momento; con qualche finta teneva l’amica ancora un po’ sulla corda, e quando la vedeva al massimo della tensione faceva finalmente il lancio nel cestino della carta.
Come se gli avesse letto nel pensiero, lei sembrava scattare sempre un attimo prima, si tuffava a capofitto nel bidone di plastica, ripescava immancabilmente la pallottolina giusta, e poi cominciava a giocare a pallone anche con quella.
Era bello occuparsi senza risparmio della loro bambina pelosa, ed erano giorni felici, quelli, nonostante il passare del tempo ed il susseguirsi delle tempeste al seguito.

Naturalmente c’era chi criticava tanta abnegazione “per un gatto” – come dicevano con malcelato disprezzo – ma l’uomo rispondeva che Fly non l’aveva mai deriso per come miagolava, anzi ci si era adeguata riprendendo a miagolare a sua volta, e quando lo vedeva triste evitava di lamentarsi se la ciotola era vuota, ma gli si accoccolava in braccio per consolarlo con la sua presenza silenziosa e fedele.
Invece gli avevano riso in faccia persino i togati custodi della legge, sentendogli dire che aveva fiducia nella giustizia… Era capitato più di una volta contro corrotti e predoni, ed era capitato contro quelli che nell’udienza a sei occhi sedevano accanto al magistrato.
Invece creava più astio che gratitudine la guerra contro l’ignoranza che lui combatteva con generosa lealtà per i propri alunni: c’era il pericolo di doversi assumere delle responsabilità anche prima di mettere su famiglia, se avesse vinto. I più “devoti”, quindi, lo avevano ricompensato rovesciandogli addosso una montagna di ignobili calunnie. Di rimorsi per la vigliaccheria nemmeno l’ombra: l’importante era rimanere bambini in eterno.
Invece c’era sempre un potere colluso e malsano dietro le false accuse che permettevano ai disonesti di sopraffare un innocente.

Sapevano benissimo, i due coniugi soli, che l’amore per un figlio è il sentimento più forte che si possa provare, come pure sapevano che senza amore l’esistenza è una mansione da robot, o una specie di vuoto videogioco, ma per loro, queste erano state nozioni semi astratte quasi come le fette di torta di un problema di matematica, fino all’arrivo di Fly. Era stato grazie a lei che avevano potuto assaporare la torta vera, provando forse le stesse emozioni di genitori tutti concentrati a fare da scudo alla vita dei figli, e sempre grazie a lei avevano anche potuto capire sulla viva carne che l’essenza stessa dell’amore è proprio questo dono totale di sé.
La gattina rossa precipitata dall’alto era dunque l’unico dono ricevuto dal Cielo, agli occhi loro, ovvero un angelo della Provvidenza mandato a dare un senso anche alla solitudine, perciò non ammettevano censure sulla loro bizzarra famigliola, e insistere a farne oltre il primo altolà era il modo migliore per buttare alle ortiche la loro amicizia.
Protettivo attraverso il suo bisogno di protezione, il piccolo angelo rosso assicurava uno squarcio di sereno al vascello in cui navigava con i suoi cari sotto un cielo in tempesta, ma questa infuriava, intorno, e il tempo, nemico mortale del creato, ne era il signore oscuro.
Un rovescio, un’ingiustizia, un tradimento, una persecuzione, il congedo dal lavoro nell’oblio fra tutti gli altri in festa.
Il tempo scandiva le frustate della vita all’anima innocente.
Il suocero, sua madre, suo padre, tanti zii e già troppi cugini, un esercito di amici.
Il tempo ritmava le tristi defezioni dei cari dal mondo più vicino e amato.
Un dolore di qua, uno di là, una malattia più incarognita del solito, l’entusiasmo che scemava in tutte le cose insieme all’energia che ci voleva, ma soprattutto quell’ombra maledetta che calava inesorabile davanti agli occhi.
Il tempo orchestrava le percosse della brutta bagaglia.
Sembrava che s’accanisse col babbo, in particolar modo.
Lui si sentiva come Ulisse in balìa del canto ammaliatore delle sirene, e come Ulisse resisteva all’incantesimo legato al suo scopo supremo, anch’egli resisteva alle frustate, alle sciagure ed ai colpi del tempo, legato alla creatura che con ogni sforzo cercava di sottrarre al male.
Ma come quella brutta bagaglia della vecchiaia, il male è, anche, figlio del tempo, e nemmeno un piccolo angelo rosso piovuto dal cielo sfugge alle angherie di quella cosca malavitosa, anzi, il suo tempo scorre più veloce ancora, purtroppo.

Un giorno di primavera come tanti, Fly stava prendendo lo slancio per saltare sul davanzale della camera. Doveva essere di domenica, poiché il babbo poltriva ancora sul letto e la osservava in attesa di ammirarne il balzo.
Ma come un atleta che sente di non farcela, lei interruppe lo scatto a mezz’aria graffiando il muro, poi rinunciò con l’aria avvilita.
Colto da una tenerezza improvvisa e malinconica, papà si alzò, la prese in braccio e la pose sul suo osservatorio prediletto, accarezzandole la testolina docile fra le orecchie per consolarla.
Lui non era più giovane, allora, ma forse la giovinezza della sua amata bambina era già un po’ meno in fiore della sua.

Il vecchio ricordò la scena con la stessa stretta al cuore di quella volta.
No, non era stato un giorno come tanti, quello: col brutale memento della sua legge crudele, il signore oscuro ne aveva fatto un amaro passaggio.

Ad ogni modo, il vascello navigava ancora sicuro sui solidi legni dell’amore, nonostante lo squarcio di sereno si stesse restringendo.

Quando cambiarono casa, l’uomo s’era ormai rifugiato in pensione, disgustato dai suoi simili.
C’è una quota consistente di malvagità umana nel male assoluto, e chi dice, poi, che non sia davvero in essa la colpa originale per l’avvento del tempo stesso?
Ma se così è, non basteranno mille generazioni ancora a por fine alla fine di tutto con la vittoria del bene. Per l’uomo, dunque, la storia sarebbe finita con Fly, e agli occhi di strenuo combattente della guerra infinita che egli era, ciò ingigantiva a dismisura il senso opprimente di vuota inutilità della sua vita senza di lei.
Sua moglie, invece, era ancora prigioniera del lavoro.
Più giovane, era rimasta vittima dell’infamia politica che incatena al remo della galera fino all’orlo della fossa, di conseguenza stava fuori casa per gran parte del giorno, cosicché la dolce gatta dai grandi occhi imploranti ed il suo fedele amico a due gambe divennero l’una la sola ed inseparabile compagnia dell’altro per tutto il tempo che seguì.
Fra una partita a pallone, una a basket, una passeggiata in terrazza, una merenda ed una pennichella fianco a fianco, sempre che lei non preferisse incoronargli la testa sul cuscino, erano diventati un tutt’uno.
Erano sempre nello stesso posto, e qualche volta occupati anche nelle stesse faccende come per esempio il pranzo.
Anche se l’umano preparava prima per la gatta, lei gironzolava qua e là come se non avesse fame, ma appena il suo amato si sedeva a tavola e cominciava a mangiare, ecco che compariva trotterellando dal corridoio con le orecchie da lince puntate sulla sua ciotola, e dopo una rapida annusatina per capire se il menu era di suo gradimento, faceva altrettanto anche lei con la foga di una randagia affamata.
Fly aveva persino abdicato al suo trono per stare più vicino all’adorato papà. Era, questo, il grande letto matrimoniale dei suoi, che dal giorno della conquista, poco dopo l’ingresso in famiglia, era diventato il suo regno incontrastato. Con aria regale, ci si piazzava in mezzo a mo’ di sfinge per tutto il tempo che non giocava o mangiava, e ciò poteva voler dire anche una ventina di ore al giorno.
Da quando in casa rimanevano quasi sempre loro due soli, però, aveva preso a passare gran parte di questo tempo sdraiata a terra nello studio proprio dietro la poltrona a rotelle del babbo, col rischio anche di venire travolta, nel caso di una sua retromarcia distratta.
Per farla stare comoda e al sicuro, allora, papà e mamma le avevano costruito un confortevole “monolocale” con una scatola di cartone.
Da brava bimba con ascendente gatto, infatti, Fly adorava infilarsi nelle scatole.
La mamma se n’era procurata una delle sue dimensioni al supermercato, il babbo aveva ritagliato su uno dei lati lunghi un bell’ingresso a mezzaluna che faceva anche da veranda e poi, insieme, i due avevano comprato un soffice materassino rosso che ci stava a pennello e lo avevano disposto sul fondo.
Completarono l’operazione collocando il monolocale dietro alla poltrona, sotto la sporgenza del tavolo fra bordo e gambe in modo che fosse ben protetto anche da accidentali cadute di oggetti dall’alto, e mentre lo facevano, l’inquilina girava loro intorno controllando tutto attentamente come un esperto direttore dei lavori.
Al termine, s’insediò subito nella nuova proprietà senza bisogno di alcuna spiegazione, e con la stessa felicità di una terremotata che l’avesse attesa da una vita.
Naturalmente di notte ritornava al calduccio fra i suoi due grossi “ciambellani” nel regno del lettone, ma dal giorno in cui l’ebbe inaugurata, la nuova villetta rimase per sempre la sua prediletta residenza diurna.
E poi c’è ancora chi crede che gli animali possano agire solo “per istinto”!

Un brutto giorno poco dopo i diciott’anni, Fly lanciò un urlo agghiacciante.
Erano in casa tutti e tre, in quel momento. Allarmatissimi, papà e mamma la raggiunsero nel corridoio.
Era accasciata sul posteriore e non riusciva a rialzarsi.
La portarono d’urgenza alla clinica veterinaria. Là, rimase solo lui ad accudirla durante la visita: la mamma aveva dovuto scappare via di corsa per non fare tardi a scuola.
Un ictus.
Sulla via del ritorno, il tassista osservava nello specchietto retrovisore quel vecchio uomo in preda allo sconforto, con il trasportino sulle ginocchia ed il viso inondato di lacrime senza ritegno.
Anche il tassista aveva avuto un gatto, e avrebbe voluto consolarlo, ma non sapeva cosa dire.
Il vecchio era preparato da tempo all’ineluttabilità della morte, anzi, il pensiero della sua lo aveva addirittura blandito più di una volta, ma Fly era un pezzo importante di sé che se ne stava andando, e perdere lei sarebbe stato peggio che perdere un braccio o una gamba. Ma poi, soprattutto, ciò che più lo atterriva era che il destino potesse unire la beffa alla sua crudeltà, e chiamare lui stesso a decidere di ammazzarla. Sì, ammazzarla, diceva, perché sopprimerla gli sembrava un’ipocrisia, e a lui ripugnava anche solo l’idea di far ammazzare l’amica più cara di un’intera vita.
Sua madre ne aveva avuti sette, di gatti, ed erano morti tutti nel conforto della sua vicinanza amorevole, senza bisogno di ammazzarli… Così voleva essere anche lui, e pregava Dio di non costringerlo a presentarsi negli ultimi istanti dell’adorato sguardo come se fosse un traditore.
Dio gli mandò qualche altra dolorosa prova, ma per il momento lo esaudì.

Delle proverbiali sette vite in dotazione ai gatti, una, a quanto sembra, è grazie ad un sistema vascolare capace di rigenerarsi rapidamente e con buona efficacia. In capo ad una settimana di eroici sforzi, infatti, Fly era di nuovo in piedi e camminava con grande dignità.
Le sue battaglie non erano ancora finite, però.
Pochi giorni dopo quella prima vittoria, cadde in uno stato di prostrazione comatosa come se lo spietato nemico del mondo, il tempo, si volesse far beffe della valorosa resistenza stroncandola subito con la sua ultima e fatale rappresaglia.
Sembrava ormai alla fine, la poverina, raggomitolata nella sua scatola di cartone senza mangiare né bere per tutto il tempo.
I fedeli amici umani ne vegliavano l’immobilità senza traccia di vita con un opprimente senso d’impotenza, ma al tempo stesso sostenuti da una speranza incrollabile, e forse fu proprio questa fede quasi religiosa a far emergere dall’angoscia la cura che salvò Fly.
Affidandosi ad un’improvvisa intuizione, per qualche giorno essi smisero di darle la medicina per la pressione che l’aveva aiutata a riprendersi dall’ictus, e rifiorendo d’incanto, lei si riprese finalmente anche dal coma.
Era stato il suo papà umano a voler fare quel tentativo, per altro senza alternative.
Mentre contemplava sconsolato l’inferma esanime, gli era sembrato di aver già visto una scena simile la volta che suo padre era svenuto a causa di un calo di pressione eccessivo, e sotto l’influsso del ricordo, egli aveva deciso sui due piedi di interrompere la somministrazione del farmaco. Non sapeva se facesse bene o no, ma rotto per rotto doveva tentare. In fondo il medicinale era per uso umano, e su di lei che pesava trenta volte meno il dosaggio poteva essere eccessivo, alla lunga.

Per questo o per chissà quale altro miracolo, andò bene.
Evidentemente Fly doveva avere anche più di sette vite, considerate tutte le violente battaglie che aveva combattuto e vinto nella terra di mezzo tra la vita e la morte.
“Highlander!” Esclamò un’amica della mamma con aria trionfale, strappando un luminoso sorriso anche a papà.

Ad ogni modo, la dolce gattina non fu più in grado di saltare sul letto, purtroppo, e anche il suo passo normale era rallentato, con una gambina di dietro che si affaticava più delle altre; inoltre la pressione andava comunque tenuta sotto controllo, sebbene a dosaggi adeguati, e insieme, tutto ciò era un monito permanente a non dimenticare mai l’incertezza del domani.

Papà e mamma osservavano nella loro figlioletta adottiva le amare tracce del cammino inesorabile della vecchiaia con immenso dolore. In una famiglia umana sono i figli a scorgerle nelle fatiche dei vecchi genitori, e anch’essi se ne addolorano, ma il rinnovo della vita nei figli loro stempera il dolore portando con i virgulti un senso nuovo, mentre per i genitori senza prole di Fly non era così: non c’era speranza di consolazione nel loro orizzonte.
Come la più devota delle coppie con un bambino in ostaggio ad una malattia debilitante e senza scampo, i due anziani coniugi si dedicarono allora anima e corpo ad addolcire quanto più potevano i giorni della loro amata per godere insieme a lei ogni istante che il destino concedeva. Avevano imparato ad apprezzare come mai prima il dono inestimabile del presente, perciò non si prefiggevano altro scopo che viverlo fino in fondo così.

Traslocarono la villetta di Fly dallo studio alla camera da letto per non farla sentire esiliata e sola di notte, ma presto loro stessi provarono un senso acuto di vuoto, senza il suo corpicino in mezzo a tenerli uniti anche nel mondo dei sogni. Così, una sera che papà, come d’abitudine, prima di andare a letto le stava accarezzando la testa per sentirsela spingere contro il palmo della mano con un fremito delle orecchie, fu sopraffatto ancora una volta da quegli occhioni dolci che dal primo giorno di vita gli chiedevano di prenderla con sé, e ancora una volta egli lo fece senza pensarci un attimo.
Sotto le lenzuola, la mamma sorrise in silenzio fingendo di dormire, ma subito dopo preferì sfilare un braccio dalle coperte per accarezzarla a sua volta, e in questo modo la cara intimità dei tre riprese ogni notte quasi come prima.
Poco importava il “quasi”, cioè svegliarsi quando lei cominciava a camminare sui cuscini per far capire che aveva fame o qualche altro bisogno, aiutarla a scendere, aspettare che tornasse dai suoi vagabondaggi notturni da felino, riprenderla su e tornare a dormire: per la loro bambina avrebbero fatto ben altro.

Fly si adeguò immediatamente a queste nuove abitudini.
Conosceva perfettamente tutti gli orari di casa, e a seconda che avesse voglia della quieta “trinità” notturna prima o dopo, si faceva trovare ai piedi del letto dalla mamma o dal babbo con incredibile puntualità… Ma poteva capitare anche che andasse lei a suonare la ritirata a quei tiratardi, se si trattenevano troppo nelle loro bizzarre faccende umane.
Si fece rimettere il monolocale dietro la poltrona del babbo, e ovviamente stava raggomitolata là dentro quasi tutto il giorno. Forse era presa dalle epiche cacce che poteva solo sognare, ma forse era addirittura impegnata ad abbellire di sé un mondo migliore… e questa era l’idea preferita dalle due care persone che vivevano per lei.
Aveva cominciato, anche, ad addormentarsi direttamente sui piedi del babbo, per concentrarsi meglio nelle sue meditazioni, e lui non osava muoverli di un millimetro, per paura di essere sbalzato fuori dal suo regno incantato.

Papà era ormai praticamente cieco.
Per fortuna riusciva ancora a lavorare al computer, sebbene a fatica, ma vedeva solo in una zona molto ristretta e ben illuminata davanti a sé, perciò difficilmente si accorgeva dell’ombra furtiva che gli girava fra i piedi nella penombra, quando si muoveva a tentoni per casa, e una volta le aveva anche pestato la coda strappandole un urlaccio.
Gli era dispiaciuto moltissimo, naturalmente, però non era stata solo colpa sua, piuttosto del tempo, invece. E’ sempre quel sadico nemico giurato del creato, che gode ad affliggere il mondo per mezzo del mondo più caro.
Il fatto è che quando era sveglia Fly amava molto passeggiare, e soprattutto seguire ovunque il suo adorato papà, ma col passare del tempo si stancava sempre più e sebbene, da combattente nata qual era, non rinunciasse mai a gironzolare per casa, sempre più spesso si appoggiava a muri e stipiti per riposarsi, o addirittura si accasciava a terra per un po’. Questo rendeva ancora meno prevedibile la sua posizione, e più alto il rischio che il babbo la calpestasse di nuovo, allora lui s’era messo addirittura a strisciare i piedi come un paralitico, pur di non farle male un’altra volta… ma se, così o con l’aiuto della moglie che gli faceva da vedetta, lui riusciva faticosamente a non essere complice del teppista che odia l’amore, men che mai il tempo placava il suo odio.

Com’è come non è, però, si vede che talvolta l’amore può bastare a sé stesso, perché malgrado le bordate del nemico, l’indissolubile terzetto visse ancora molti giorni sereni e felici, nel calore della propria intimità.

Una volta Fly si sostituì addirittura alla Protezione Civile salvando la casa da un’inondazione.
Già da molto tempo i suoi genitori umani la consideravano un angelo inviato dal cielo, ma con quell’impresa lei si guadagnò anche una fulgida aureola, e così, fra quelle mura, l’evidenza elevò a prediletta certezza la sua reputazione celeste.
Nel diario che teneva, papà annotò il fatto così.
MIAOOOOO!!!!!

A volte Fly avvisa sonoramente, se le scappa dove non deve.
La mamma è accorsa trafelata temendo il peggio, ma non era di gattesca pipì la marea che avanzava minacciosa nella stanza, e già lambiva la villetta di cartone della micia inzuppandone la base.
Nel lavello del bagno stracolmo, il materassino rosso del suo giaciglio fluttuava nel morbido ammollo odoroso di bucato, mentre un getto d’acqua come d’idrante antincendio erompeva con furia dal rubinetto che pareva sgozzato, e soverchiando l’ingoio difensivo del “troppo pieno”, dilagava ormai sul pavimento a valle senza trovare più alcuna resistenza.

La bonifica è costata molti stracci strizzati e un bel mal di schiena, a forza di svuotare il mastello nel water, ma grazie al tempestivo allarme di Fly IL PARQUET È SALVO.
Al pari di Hendrick, il bambino che salvò l’Olanda dall’alluvione tappando il buco nella diga con un dito, l’eroica gattina ha salvato la sua famiglia dalla furia delle acque con un potente miaooooo, e adesso, sul comò, la statuetta in bronzo di un micio rosso con la coda su si strofina alle gambe del bambino biondo venuto dall’Olanda, con gli zoccoli ai piedi e le calze giù.

Ma la gioia del presente era intrisa di malinconia, benché ogni momento passato insieme fosse un bel regalo per tutti e tre.
Il fato era in agguato dietro alla falsa innocenza del tranquillo fluire del tempo, e nell’aria aleggiava il suo alito feroce.

Fly aveva avuto la cistite altre volte, in passato, ma non era mai stato un problema. Fin dalla prima somministrazione dell’antibiotico gli spasmi della pipì si calmavano, e in capo ad una settimana di cura era già tutto nel dimenticatoio da diversi giorni.
Ma questa volta sembrava particolarmente riluttante ad assumere la medicina, e il quarto giorno non ne voleva proprio più sapere.
Il babbo interruppe la cura, preoccupato.
La notte tremava convulsamente e batteva i denti, mentre lui la prendeva a letto.
Poi smise di mangiare ed anche di bere.
Il veterinario disse che non ce l’avrebbe fatta, se non avesse ripreso a nutrirsi, ma per questo non doveva indebolirsi troppo, perciò papà e mamma le davano dei cibi semiliquidi con una siringa e lei, poverina, li mandava giù, anche se forse avrebbe solo voluto che la lasciassero in pace.
Il cortisone non sortì alcun effetto, e nemmeno con gli anabolizzanti tornò in lei quell’invincibile forza vitale che tante volte l’aveva fatta trionfare sull’oblio.
Giaceva nella sua scatola come un indumento vuoto, la testa completamente inerte sul cuscino, finché, quel maledetto giorno…
………
anche lei morì.

A letto, nella silenziosa oscurità della notte, il vecchio piangeva, piangeva, piangeva.
Gli mancava maledettamente quel vellutato fagottino peloso fra lui e la moglie, che per quasi vent’anni aveva diviso sonni tranquilli con loro come un eterno bambino, quella leggera pressione sopra le coperte che le faceva adagiare lentamente sul suo posto nel mezzo, scoprendo loro la schiena o il davanti accanto ai bordi del letto, la testolina amica dalle orecchie frementi che gli s’appoggiava teneramente alle gambe cercando affetto e carezze nelle mani fidate.
Di chi si sarebbe più occupato, lui, adesso?
Poco importava che fosse per prenderla al sole in terrazza sopra di sé, per giocare a pallone col grappolino di gomma, a pallacanestro con l’incarto crepitante di un cioccolatino, o per riempire un carrello da buongustaia fiera affamata all’Isola dei Tesori come per un gesto scaramantico di buon augurio, per cercare spazzole in internet e forbici dentate dal barbiere adatte a scioglierle i nodi del pelo, o inventarsi complicate preparazioni galeniche per il dosaggio utile e sicuro delle medicine alle sue proporzioni…
L’importante era occuparsi di lei, perché se non lei, di chi altri poteva occuparsi un vecchio quasi cieco, ormai incapace anche di due passi intorno a casa tanto per scambiare un saluto col primo che incrociava?
“Tu de l’inutil vita estremo, unico fior…”
Il verso del “Pianto antico” gli si ripresentava insistentemente alla memoria.
Lui non si accostava certo a chi perde il proprio stesso sangue a tre anni di età, ma se ora poteva anche solo intuire da lontano il dolore del poeta come mai prima, era perché anche lui soffriva per la perdita cara, perché anche lui si sentiva una pianta percossa e inaridita… ma soprattutto, perché anche a lui, con la propria inutilità, la vita appariva ormai del tutto inutile.
Adesso che dal prezioso scrigno dei suoi affetti più veri era stata rapinata una perla, ne erano rimaste solo due ad illuminarsi a vicenda l’orizzonte chiuso e spopolato, ma prima o poi il brutale delinquente avrebbe colpito ancora, lasciandone una sola.
Di nuovo rabbrividì, al pensiero di poter essere lui, quello.
Sarebbe stato peggio che finire i propri giorni nelle segrete di un castello medievale, senza nemmeno un boia a ricordargli d’esser vivo.
Però sarebbe stata una disgrazia terribile anche ridursi ad una larva, con la moglie costretta a fargli da badante.
Gliel’avrebbe risparmiato volentieri, se ora il destino avesse accettato di prendersi anche lui, ma doveva dargli una mano, per non sbagliare. E per quanto grave, poi, potesse essere la perdita anche per l’amata consorte, a lei la vita avrebbe tuttavia ridato un senso.
Era più giovane e aveva ancora saldi legami ad un mondo esterno più rigoglioso e puro del suo, ne aveva anche diritto, in fondo.

Ma ci voleva coraggio, e neanche tanto per l’atto in sé, che sarebbe stato solo un attimo, quanto piuttosto per dopo: per l’eternità.
Cavolo, se nelle storie dei preti c’è anche solo una briciola di verità, è da folli aprirsi lo sportello della fornace da soli. Già è insopportabile la sofferenza di questa valle di lacrime, benché si sappia che prima o poi finisce, rischiarne una versione eterna è incoscienza pura!
Sempre che i preti non si siano bevuti il cervello, con le loro storie: onnipotente ed infinitamente misericordioso… ma dai!
Ma dai un corno: l’intelletto non può comprendere tutto.

Se la prese col Padreterno, che è il creatore di ogni cosa ed anche l’autore delle regole del gioco.
“Se uccidere è peccato mortale, all’inferno ci dovresti essere Tu dalla creazione del mondo!” Lo sfidava, ma Dio taceva.
”Che bisogno c’è dell’amore, se il prezzo è questo? Ti piace soffrire? Ma a noi no, e se Tu sei masochista, noi cosa c’entriamo?” Lo sbeffeggiava, ma Dio taceva.
“Allora Tu sei anche il male, se tutto è in Te. Oppure non è vero che l’hai sconfitto e precipitato all’inferno fin dal principio del tempo.” Lo provocava, ma Dio continuava a tacere.
Ci si sarebbe azzuffato, se lo avesse potuto vedere.
“E vieni fuori che ho voglia di suonartele, porca miseria! Combatti da uomo anche Tu, visto che costringi noi a scannarci anche solo per sopravvivere!” Ma qui gli venne d’improvviso in mente che forse è proprio questo il senso del Cristianesimo, allora il vecchio sospese le ostilità con una punta di rammarico frammisto a timore.
“Perdonami. – Pensò – Gesù è innocente, e se davvero sei Lui, in qualche modo che non capisco anche Tu lo sei.”
Poi si calmò, e cadde in un sonno profondo.

Si svegliò con il dolce miagolio nelle orecchie di quando Fly lo chiamava per la colazione, ma gli unici suoni erano dei preparativi della moglie per recarsi a scuola.
La raggiunse che si stava coprendo col trucco le tracce del pianto, e si abbracciarono senza parlare.
Quando lei se ne fu andata, prese a gironzolare per casa immerso in pensieri cupi. Passava in rassegna i ricordi di tutta la vita senza trovare nulla, al di fuori della famiglia e di Fly, per cui fosse valsa la pena tutto il daffare che s’era sempre dato. Ma la famiglia era ormai ridotta ad un arbusto rinsecchito, e Fly non c’era più. Per quanto la mente gliene ricreasse la presenza in ogni atto che compiva, lei non c’era più.

Si affacciò alla terrazza con le lacrime agli occhi.
Nel boschetto dietro casa, la primavera riempiva l’aria dei profumi freschi e dei suoni allegri del risveglio. Eccitate, le nuove generazioni degli uccelli assaporavano la vita gorgheggiando nel gioco frenetico all’eterno ritorno.
Lui aveva perso, a quel gioco, Fly, poverina, non aveva potuto nemmeno partecipare.
Pensò alle immense schiere degli sconfitti e degli esclusi con un sentimento di mesta partecipazione.
I grandi alberi davanti a lui si ergevano forse fino all’ottavo piano, di sicuro al settimo: due più del suo. Stavano rinverdendo, ma le foglie, non ancora fitte come d’estate, non coprivano del tutto il paesaggio.
Il parco era uno dei maggiori pregi della casa. Lui e la moglie se ne erano innamorati anche per questo, quando ancora la stavano scegliendo.
Nelle stagioni in cui il rigoglio della natura non nascondeva tutto, si godeva anche una bella vista sulla città dalla sua terrazza, con San Luca che svettava in lontananza tra le fronde rade. Ma lui poteva solo immaginarla attraverso le descrizioni amorevoli della moglie, adesso che davanti al suo sguardo le cose erano divenute ombre indistinte nella maledetta foschia che le sbiadiva ogni giorno di più.
Adirato di nuovo con Dio, diede un calcio al parapetto come per darlo a Lui, ma ancora una volta Dio si sottrasse alla rissa e tacque.
Il vecchio guardò giù.
Concentrandosi su piccole aree centrali del campo visivo, riusciva ad intuire, uno alla volta, gli arredi del giardino.
Se avesse scavalcato il muro, avrebbe provato per qualche attimo l’ebbrezza della libertà assoluta. Il piacere supremo del volo senza catene nell’aria pura, che tante volte aveva sognato, poi finalmente la pace del nulla.
“Il nulla può bastare, visto che il Paradiso ha tutta l’aria di una pia illusione. Non vale davvero la pena sperarci, con le premesse di questo mondo dove la spirale del male si avvolge senza fine per quanto impegno uno metta a spezzarla…

Ma se poi l’esistenza continua davvero? Anche solo andare avanti in eterno come adesso sarebbe un vero inferno.”
E altro che ebbrezza di libertà! Non ci sarebbe stato proprio niente di esaltante in quella caduta… folle terrore, invece, molto, da far sembrare lunghissimi i pochi istanti che sarebbe durata… Poi, dopo il terrore impotente… SPATAPAAAMMM!!! La botta micidiale e per niente elegante, che magari non lo avrebbe nemmeno accoppato subito.

No. Non sarebbe servito a nulla sfracellarsi là sotto, sullo scivolo dei bambini o sulle panche delle nonne, se non a portare l’orrore nelle loro chiacchiere durante i giochi dei nipoti.
Un atto assolutamente vano; proprio il contrario dell’aspirazione che lo aveva sempre animato: servire! Spendersi per le persone e la collettività, contribuire al progresso di tutti… Desiderava essere ricordato per ciò che di buono avrebbe lasciato dietro di sé. Un discreto tesoretto di impegno e d’amore, secondo lui, niente che valesse una parola d’augurio per la pensione il giorno dell’addio, secondo il mondo.
Ma appunto per questo, la sua uscita di scena non doveva essere la noiosa lagna dell’ultima sconfitta, come sarebbe stato l’oscuro schianto sulla pace del giardino condominiale che gli era venuta in mente.
Il meritato riscatto doveva essere! Qualcosa di simile allo sparo di Tenco… o almeno al suo grido lacerante: un monito perenne alla coscienza dei giusti contro il cinismo e l’infedeltà.
Non che anche in quel modo si aspettasse il trionfo improvviso della giustizia, ma di portare un altro mattoncino al suo edificio sì, e mattoncino dopo mattoncino, da quando al mondo c’era chi voleva farci un magnifico castello, la costruzione era cresciuta un bel po’.
Non l’aveva, però, una pistola, e in ogni caso anche spargere sangue e pappa di cervello sui mobili per il maggior raccapriccio della moglie gli sembrava assai poco elegante.
Povera Tata! … Lei gli voleva bene e non aveva alcuna colpa dei suoi naufragi. anzi, era il suo unico successo umano, la sola perla del diadema rimasta ad illuminargli la rotta, e al tempo stesso l’approdo sicuro dove dirigerla. Non meritava di sicuro l’orrenda accusa che un gesto simile le avrebbe rivolto suo malgrado.

Il vecchio si tranquillizzò un poco.
Pensò che aveva avuto altre volte dei pensieri cupi senza veri impulsi di autodistruzione, perciò forse anche quel giorno aveva solo bisogno di distrarsi un po’.
Una bella nuotata gli avrebbe rinfrescato le idee scacciando la depressione con la fatica, e dopo, anche lo struggente ricordo di Fly avrebbe potuto iniziare il cammino verso la quieta terra dei numi tutelari per mutarsi in culto e speranza fiduciosa.

Portandosi verso l’altra estremità della lunga terrazza per abbassare la veneziana, inciampò in una robusta corda che sporgeva da sotto il tavolo di plastica per cenare all’aperto nella bella stagione.
Dovevano averla dimenticata gli operai che la settimana prima avevano portato i mobili nuovi della sala con la piattaforma aerea.
Poi il brutto tempo aveva sicuramente fatto rintanare in casa la moglie, che altrimenti se ne sarebbe accorta e le avrebbe assegnato un posto più acconcio, e quindi era rimasta là.
La raccolse, constatando che era piuttosto lunga.
Ci fece un nodo scorsoio ad un capo senza nemmeno rendersene conto. Era un’abitudine bizzarra che aveva preso da bambino, dopo aver visto un’impiccagione selvaggia in un film di cow boy. Tormentato dal ricordo della scena col lungo indugio sul cappio intorno al collo del malcapitato, aveva provato a riprodurne lo strano nodo come per liberarsene, e dopo il primo successo, aveva preso a ripetersi meccanicamente quasi ogni volta che gli capitava una corda fra le mani.
Mise questa nella sacca da scarpe del borsone sportivo con l’intento di riporla nell’autorimessa al ritorno dalla piscina; prima di andarci no, perché altrimenti avrebbe perso la coincidenza dell’autobus alla Stazione Mazzini, e con la coincidenza, a volte si perdeva anche più di mezz’ora a quella fermata.
In autobus, ripensava in trance alle lunghe attese alla base del ponte di mattoni su cui la vecchia ferrovia che unisce alla Toscana scavalca la Via Emilia. L’alta velocità ci passa proprio sotto in una moderna galleria, e raggiunge silenziosamente la stazione centrale come una costosa metropolitana fra Bologna e Firenze.
La stazioncina in ferro è situata proprio sull’arco del ponte a cavallo della strada, abbarbicata alla sua struttura antica come una gigantesca pianta rampicante azzurra.
L’avevano costruita contemporaneamente alla linea sotterranea quando il vecchio abitava ancora là vicino, ma dei lavori dell’alta velocità non s’era mai accorto nessuno, e la Stazione Mazzini era stata aperta al pubblico solo dopo il suo trasferimento, perciò non aveva mai avuto occasione di andare a vederla.

La Via Emilia è il cuore dell’intera regione; c’è sempre un gran traffico sotto il ponte della Stazione Mazzini.
Il vecchio pensò con una smorfia truce all’effetto che avrebbe fatto sui passanti veder precipitare un uomo dal ponte e rimanergli penzoloni davanti agli occhi.
C’era il rischio di qualche piccolo tamponamento, ma nulla di grave, perciò non era il caso di farsi degli scrupoli.
Invece, quello sì che sarebbe stato un ammonimento da far venire i brividi!
Purtroppo l’eco sarebbe svanita in fretta, se è vero che in questo mondo perverso ci si dimentica in un amen anche dei crimini più efferati e degli attentati con centinaia di vittime innocenti, ma almeno l’avrebbero avuta sulla coscienza per sempre, quelli che l’avevano trascinato fino a quel punto.
I politici che l’avevano fatto quasi fallire per non aver assecondato la loro corruzione, i magistrati che li avevano coperti rendendosi complici della corruzione e dei ricatti, gli imberbi calunniatori che gli avevano guastato gli ultimi anni di un’onesta carriera per degli oscuri motivi, i velenosi serpenti dagli oscuri motivi dietro di loro, l’ispettore infedele che aveva accolto la ridicola accusa di “attribuzione dei voti senza una giusta attribuzione dei voti” per non indagare sulla misteriosa ubiquità dei serpenti velenosi: capaci di essere presenti al tempo stesso a scuola e nel loro nido.
………
“E forse anche Tu, se è vero che ci ami.”
………

Finalmente ci sarebbe andato, quel giorno, a vedere la stazioncina sospesa.
Peccato doverla consegnare alla storia con la fama odiosa di forca come il ponte dei Frati Neri di Londra, ma questa volta, la morte auto inflitta in pieno sole ne avrebbe fatto una tribuna infuocata contro l’ingiustizia, e in questo modo, la “Stazione dell’impiccato” sarebbe diventata un marchio indelebile, nella coscienza della città.

Il vecchio salì le scale del marciapiede Est. A quell’ora, il sole saliva ancora ad oriente, e col viso rivolto a lui, il monito sarebbe stato ancora più terrificante, per coloro che venivano dalla parte del mare.
Sul suo marciapiede non c’era nessuno all’infuori di lui; sull’altro, solo una donna velata che teneva per mano due marmocchi irrequieti.
Il vecchio si sforzò di precisarne i contorni pur nella nebbia dei suoi occhi che tutto sfumava; in quella luce gli riusciva abbastanza, se li inquadrava bene nella minuscola finestra rimastagli sul mondo.
L’aspetto della donna era indecifrabile, sotto tutti quei tendaggi, ma poteva essere anche attraente, stando alle forme che questi prendevano con certi movimenti, in ogni caso era senz’altro molto giovane.
I bimbi sembravano gemelli. Entrambi paffuti e sui tre o quattro anni, mettevano a dura prova l’energia della madre tirandola di peso di qua e di là. Dicevano cose incomprensibili ed erano simpatici, con il loro cipiglio volitivo.
Un vuoto gigantesco nell’album esistenziale del vecchio che solo Fly aveva saputo colmare.
Consultò gli orari per vedere quando sarebbe passato il loro treno: non voleva mostrare le proprie intenzioni prima che divenissero inevitabili.
C’era ancora un po’ di tempo, tanto che prima sarebbe passato un altro treno senza fermarsi, di conseguenza si mise ad ispezionare le balaustre per scegliere il punto più adatto a fissare la corda.
Guardò in strada il traffico che veniva da levante; la fila ininterrotta di veicoli avanzava lenta ed ordinata come sempre.
Aveva un gran peso sul cuore. Sarebbe stato bello essere al parco a giocare sull’erba con dei nipotini vispi come i bimbetti sull’altro marciapiede che sentiva fare i capricci alle sue spalle. Invece era alla Stazione dell’Impiccato, a fare in modo che il posto potesse guadagnarsi il fatidico nome.
Provò una fitta lancinante al pensiero della moglie. Gli sembrava quasi di vederla: con l’espressione sconsolata e le braccia protese verso di lui nella preghiera di non farlo, e lo addolorava mortificarla come se non apprezzasse il suo amore, ma era sicuro che la sua cara Tata lo avrebbe capito. Aveva bisogno di lei e della sua devozione più dell’aria che respirava, per vivere; ma bisogna pur vivere nel mondo, ed era contro il mondo intero che lui si ribellava, contro la diabolica malvagità che vi alberga, e nemmeno gli infiniti sacrifici dei giusti come lei riescono ad estirpare.

Lo confortò un poco rivolgere l’immaginazione ai momenti più belli vissuti con lei e Fly in quella sorta di trinità terrena che li aveva uniti.
Forse adesso si stava cacciando in un guaio persino peggiore della vita mondana, ma era troppo crudele per crederci davvero. Forse andava incontro al nulla assoluto, invece, o forse addirittura alla felicità tanto agognata… Allora avrebbe rivisto Fly in tutto lo splendore della nuova luce senza foschie, e insieme, essi avrebbero atteso l’adorata mamma per ricostituire in eterno il diadema perfetto.

Il fischio del treno lacerò l’aria contemporaneamente al grido agghiacciante della donna ed al pianto di un bambino.
Il vecchio si volse con un sussulto. Uno dei piccoli strillava in mezzo ai binari, la madre teneva per mano l’altro sul bordo del marciapiede gridando qualcosa e gesticolando verso di lui. La poveretta non poteva scendere a recuperare il figlio sfuggito al suo controllo senza mettere in pericolo anche l’altro, sia che se lo trascinasse dietro, sia che gli lasciasse la mano.
Doveva farlo lui. Rischiava di brutto la vita, ma l’unico inconveniente pratico ai suoi piani che avrebbe comportato perderla sarebbe stato il futuro nome della stazione e tutto sommato, “Stazione dell’Eroe” sarebbe stato anche più bello dell’altro.
Questi pensieri fuori controllo gli balenarono in testa con la velocità della folgore, e tuttavia la sua corsa non li attese. Nonostante l’età, balzò fra i binari ancora più rapidamente, perché ormai il treno era a non più di cento metri.
Nel momento in cui posò le mani sul piccolo, la locomotiva era già grande davanti a loro, e fischiava a più non posso. Se lui avesse avuto delle difficoltà a sollevarlo, sarebbero stati travolti entrambi.
Terrorizzato, il bambino gli si aggrappò addosso ostacolandogli i movimenti. Era più pesante di quanto lui si aspettasse, tanto che si sbilanciò un poco in avanti fin qusi a cadere a sua volta. Allora fece appello a tutte le risorse da antico sportivo che coltivava da sempre, e, col cuore in gola, riuscì appena in tempo ad uscire col bambino in braccio dalla traiettoria fatale della macchina sferragliante.
La madre gli si buttò ai piedi bagnandoglieli di lacrime, mentre il treno ancora transitava davanti al marciapiede.
Pallido, e con la testa completamente svuotata di ogni pensiero, le riconsegnò come un automa il figlioletto ascoltando il gran fragore dei vagoni come un messaggio arcano.
Poi fu di nuovo il sommesso rimbombo del traffico di sotto.
La donna gli diceva parole che lui non comprendeva, ma fra le risa ed i pianti di ogni essere umano; i bambini gli si aggrappavano ai pantaloni come ad un padre, e furono le emozioni universali di questo linguaggio dei sentimenti a risvegliarlo d’improvviso dal suo incubo terribile.
“Ma che cazzo volevo fare?” Si domandò, quasi che ora fosse un altro. Poi si liberò gentilmente della gratitudine vociante che lo circondava e attraversò di nuovo i binari per andare a riprendersi il borsone. La sua Tata stava per ritornare dalla scuola, e non voleva che fosse sola, col triste rimpianto di Fly.

Un leggero piagnucolio lo fece volgere di nuovo per un ultimo saluto, ma i suoi protetti non c’erano più.
Seduto vicino all’imbocco delle scale, invece, un gatto rosso con le orecchie da lince lo guardava miagolando dolcemente.
Papà gli sorrise fra le lacrime accennando ad attraversare di nuovo i binari, ma il micio si alzò e scomparve giù dalla rampa scuotendo la coda ritta come un gaio arrivederci.
Il papà di Fly accennò un saluto avviandosi a sua volta verso l’uscita.
“Grazie, Angelo mio!” Ripeteva fra sé.
FINE

IL SILENZIOSO “OMINICIDIO” PERMANENTE DI STATO

Quando, nel 2010, Michael Douglas si ammalò di cancro alla gola e disse che gli era venuto a causa del sesso orale, si sollevò contro di lui l’indignata reazione della stampa di genere del mondo intero, e l’apostata fu messo in graticola come il più blasfemo degli eretici medievali.

 Poveraccio, s’era beccato il cancro, gli avevano detto che la causa poteva essere quella e magari intendeva solo consigliare cautela agli altri, ma per i severi guardiani dell’orientamento culturale prevalente l’altra metà del cielo non poteva stare che sugli altari insieme alla madre di Gesù.

Più sommessamente, però, ed evitando di esporsi all’inquisizione del terzo millennio, la divulgazione scientifica più seria stava informando da tempo che quell’ipotesi ci poteva anche stare, poiché diversi tipi di tumore del collo e della testa sono provocati dall’HPV, ossia proprio lo stesso papilloma virus che causa il cancro della cervice uterina.

“Allora perché danno il vaccino gratis solo alle ragazze e a noi no? – Si domandavano un po’ contrariati molti maschi dall’inizio della campagna di prevenzione, nel 2008 – Grazie che poi le donne campano sei o sette anni di più!”

Ma non era tanto il primato femminile ad irritarli, quanto piuttosto la discriminazione mortale contro di loro.

Da sempre i maschi si accollano di buon grado i rischi del fronte, nonché del lavoro in miniera e sulle rotte più tempestose sopportando in compenso l’ingratitudine muliebre, ma essere selezionati d’ufficio per la pentola come i galletti del pollaio non era una libera scelta come il cantiere di una diga, senza contare che gli immeritati sensi di colpa per le asfissianti accuse dei media di essere tutti degli ammazzafemmine a causa dei crimini di alcuni rendeva il vaglio ancora più odioso.

C’era chi non ci stava, però, così quando uno di questi irriducibili “maschilisti”, afflitto da un’annosa verruchetta contro cui s’era infranto invano ogni tentativo di cura apprese che il papilloma virus è causa per l’appunto anche delle verruche, e che queste si possono combattere efficacemente con certi ritrovati recenti della medicina, volle andare al fondo della questione rompendo il silenzio.

Nel 2013 si presentò all’ambulatorio di malattie nfettive dell’Ufficio d’Igiene chiedendo lumi.

Gli spiegarono che il papilloma delle verruche è di un ceppo inoffensivo, e che il vaccino per quello del cancro “sembrava” più indicato per le ragazze, ma più indignato che convinto, lui obiettò che quella era una sanità discriminatoria, e quindi in gran parte responsabile della morte anzitempo dei maschi rispetto alle femmine, cioè dei 300000 decessi di uomini che avvengono ogni anno in Italia; pertanto questi erano veri e propri “ominicidi” di stato occulti, a cui era ora di porre fine.

“Senza contare che anche l’aviaria è inoffensiva per gli esseri umani – concluse – ma si sterminano milioni di uccelli in tutto il mondo per paura del salto di specie.”

Sconcertata, la dirigente dell’ambulatorio lo indirizzò all’omologa di Dermatologia dell’ospedale, dove erano più aggiornati sui dettagli delle sue domande.

Ci andò senza aspettarsi gran che di nuovo, ben sapendo che la sua era sostanzialmente la provocazione di uno con del tempo da perdere, ma almeno voleva ottenere risposte precise a domande precise, e poiché “verba volant”, questa volta si presentò all’appuntamento con la lettera che segue, dove aveva messo per iscritto i suoi quesiti.

Buongiorno,

ho una verruca al pollice sinistro da almeno 8-9 anni. Ho fatto diverse applicazioni di crioterapia ed altri prodotti farmaceutici senza successo, anzi, da alcuni giorni sento un indurimento nel polpastrello dell’indice sinistro che mi fa temere il contagio anche di quello.

Da quando ho appreso che queste lesioni, sostenute da papilloma virus, possono contagiare qualsiasi parte del corpo, compresi gli organi genitali, e che certe varianti del virus possono dare luogo a diversi tumori sono molto preoccupato: uso la mano sinistra quasi esclusivamente con 3 dita, ed evito di toccarci le zone intime di chiunque, a cominciare da me stesso,

Domando: è per un’inconfessata selezione di genere tesa a decimare la popolazione maschile che non si prescrive il vaccino agli uomini? E se in questo caso esso è inutile, perché non ci si può curare nemmeno con gli antivirali di ultima generazione come il Cidofovir, che si dice siano molto efficaci?

Grazie

Inaspettatamente, la responsabile prese molto sul serio questa lettera. La fotocopiò e fece fare delle ricerche sul Cidofovir,

Risultato: il medicinale costava sui 600 Euro… troppo per delle verruche, per quanto fastidiose e a rischio di contagi ancora più sgradevoli.

Quanto agli “ominicidi” di stato su vasta scala, disse con molto imbarazzo che la battuta era simpatica, ribadendo la spiegazione della collega che il vaccino anticancro “sembrava” più indicato per le ragazze, ma era del tutto evidente che nemmeno lei credeva una sola parola di ciò che diceva.

La cosa finì lì.

O forse no.

È di questi giorni la notizia che, con 9 anni di ritardo rispetto alle donne, i nuovi Livelli Essenziali di Assistenza prevedono la somministrazione gratuita del vaccino anti HPV anche ai maschi.

È grazie alle bastonate del referendum?

È cominciata l’era Trump?

Chi vivrà vedrà.

LA “MANOVRA” FIORENTINA

500 alle gestanti
500 anche ai lattanti
500 ai diciottenni
500 ai novantenni
500 agl’insegnanti
500 agl’ignoranti
500 ai biscazzieri
500 a quelli neri
500 per le mamme
500 per le nonne
cinquemila per le donne
,,,,,
papà stroncato
da poco svezzato
ben più che ai diciotto sopravvissuto
da ex professore son pensionato
e ciò malgrado rimango istruito
son maschio e lavoro senza rubare
son bianco e soccorro chi affronta il mare
appena padre da casa sfrattato
anche la nonna mi ha depredato
son io che pago cotanto sollazzo
eppur solo a me non spetta mai un cazzo!

INCONTRI DI UN IPOVEDENTE E DEL SUO ANGELO CUSTODE NEL PAESE DEI BALOCCHI

 

Un sabato mattina, Andrea e Lucia escono per godersi un po’ la città.

Lei si è ritagliata la breve pausa dagli infiniti impegni di ogni giorno, e nonostante porti un braccio al collo per via di un recente infortunio, ha deciso di regalarla a lui. Sull’uscio di casa, il coinquilino di fronte li ha chiamati “il gatto e la volpe”, dato che Andrea è pressoché cieco, ma in realtà, forse in onore al carisma iscritto nel suo nome, Lucia gli fa piuttosto da Angelo Custode, e oltre che per l’affetto che li unisce da sempre, Andrea le è grato anche per questo.

In autobus, l’obliteratrice rifiuta l’abbonamento annuale di Lucia.

“Sarà scaduto.” Pensa lei, che sa di doverlo rinnovare più o meno in questo periodo, ma non ricorda il giorno esatto. Benché infarcita di elettronica, infatti, la tessera non lo riporta, sicché Lucia se lo sta domandando già da qualche tempo.

La sera prima, avendo accompagnato Andrea nell’ufficio Tper dei contrassegni d’invalidità per l’auto, ha chiesto anche quest’informazione e l’impiegata le ha indicato la scadenza della carta sotto la fotografia, ma quella non è la data del rinnovo, e a tale obiezione, pur seduta innanzi al computer che tutto sa, s’è avvalsa del diritto di ignorare la risposta sancito a suo dire dalle mansioni specifiche di quell’ufficio.

Ad ogni modo, Lucia è una donna ligia, perciò decide di comprare un biglietto al distributore automatico.

Dopo aver rovistato un bel po’ nel portamonete suo ed in quello di Andrea, riesce finalmente a racimolare spiccioli per l’Euro e mezzo che occorre e si accinge a farlo, ma…   l’apparecchio in testa al bus ha la cassa piena e di conseguenza non funziona.

Pazientemente, l’angelo ingessato si dirige brontolando al dispensatore gemello in coda. Lo raggiunge a fatica poiché il mezzo è imbizzarrito, percorre la via tortuosa a velocità folle, e sbattendola da tutte le parti come un fuscello, la costringe ad abbarbicarsi ai sostegni con la mano buona per non rompersi anche quella, ma giunta in fondo… l’apparecchio è fuori servizio e si beve le monetine senza emettere la costosa strisciolina di carta.

Scocciatissima, lei riferisce tutto al pilota di rally per mettersi al riparo da una multa: è meglio evitare di apprendere dai controllori cosa penserebbero delle sue giustificazioni, perché in caso di sanzione, addio all’investimento di 300 Euro per l’abbonamento annuale allo scopo di risparmiare qualcosa.

Il rallista mancato prende atto della dichiarazione, ma… “ovviamente non può mica testimoniare ciò che non ha visto”.

Furibonda, Lucia sta quasi per proporre di scendere a comprare un biglietto, quando ricorda che forse nel portafoglio ha anche un city pass di scorta. Previdente com’è, l’aveva comprato insieme all’abbonamento proprio per delle dimenticanze o altri accidenti del genere, e infatti lo trova.

Ma… la macchinetta infernale rifiuta anche questo.

“Eppure ci sono ancora otto corse!” Esclama perplessa.

“Avranno modificato il modello. – Ipotizza Andrea senza crederci – Da quand’è che l’hai?”

“Saranno tre anni.” Risponde lei con dubbiosa ferocia.

L’agitazione per il timore di venirne fuori “cornuti e mazziati” non si calma del tutto nonostante la sovrana consapevolezza dei passeggeri senza titolo di essere più che in regola, ma per fortuna non salgono ronde e così, salvandoli da un possibile abuso, la fine del viaggio giunge più gradita che mai.

Comunque, la scadenza dell’abbonamento rimane un mistero che Lucia deve chiarire, e come sarebbe andata in caso di un controllo è una domanda che stuzzica la curiosità di entrambi, perciò, dopo gli acquisti, il cieco e la sua guida vanno a chiedere informazioni nell’ufficio Tper di Via Lame.

La coda è breve e per fortuna le mansioni dell’addetta sono meno specializzate che all’ufficio contrassegni.

Al banco, una ragazzina disponibile ed attenta informa che l’abbonamento di Lucia è scaduto proprio quel giorno, che in caso di malfunzionamento degli apparecchi a bordo occorre avvisare l’autista, che il city pass è valido e che se la macchinetta l’avesse obliterato si sarebbe potuto chiedere il rimborso del biglietto perso sporgendo regolare domanda allo sportello su appositi moduli.

“Meno male che non ha funzionato!” Commenta Andrea, rabbrividendo al pensiero di tutto quel traffico per un Euro e mezzo.

Quanto alla mediazione dell’autista, la questione s’è risolta da sola, quindi sarebbe un’inutile perdita di tempo approfondire il senso della sua risposta.

Sono appena usciti, che ad Andrea viene in mente di chiedere la scadenza anche del proprio abbonamento, inoltre non è ancora sicuro se con la disabilità abbia diritto a qualche sconto, visto che l’accertamento è recente, perciò vuole sincerarsene: per telefono gli hanno detto di no, ma non si sa mai, considerata l’incomprensibile spiegazione avuta.

Rifatta educatamente la coda, questa volta incocciano in un impiegato sui cinquant’anni con un vistoso orecchino, cui piace proiettarsi come un missile dal banco agli schedari e ritorno sulla poltroncina a rotelle.

L’abbonamento scade fra più di un mese, e per degli sconti bisogna venire qui col verbale d’invalidità… Non importa che l’abbiano già archiviato all’ufficio contrassegni: si deve portare l’originale anche a lui.

“Va bene, ma intanto mi dica chi ha diritto a cosa, così magari mi risparmio un giro inutile.” Ribatte Andrea.

“Deve vederci meno di un decimo.”

“Ah! Allora non è vero che non mi spetta!” Esclama il disabile.

“Perché, lei quanto ha?”

“Un ventesimo.”

“Allora vede che ha torto? Qui c’è scritto meno di un decimo: un ventesimo è di più.”

Lucia scoppia a ridere, Andrea sgrana gli occhi.

“Mi prende in giro?” Domanda.

“No: venti è di più di dieci.”

Ipovedente ed Angelo Custode trattengono a stento i legittimi improperi.

“Ma cosa dice? – Domanda lui – Guardi che un ventesimo è meno di un decimo proprio perché venti è più di dieci… Lo chieda alla signora se non crede a me: lei insegna matematica all’università.”

“Ma certo, diamine! – Sbotta Lucia – E lui non gliel’ha detto, ma è un ingegnere: si può fidare ad occhi chiusi.”

“Che è come dire… ciecamente.” Chiosa Andrea, sarcastico.

La parata di titoli disorienta per un momento l’ex ragazzo con l’orecchino, che per qualche momento oscilla avanti e indietro sulla sua poltroncina a rotelle con l’aria meditabonda. Come sempre, però, l’ignoranza si esalta ignorando sé stessa anche davanti allo specchio, sicché infine quello sentenzia impassibile: “Comunque non le viene niente.”

L’ingegnere capisce che è inutile discutere, perciò lo prende alle spalle.

“Ma se avessi meno di un decimo quanto dovrei pagare?” Domanda sibillino.

“Ottanta Euro.” Fa il pitagorico.

“Ah, però!” Si meravigliano ridendo nervosamente gli inesperti utenti  sulle tracce dei loro diritti.

Non sarebbe il caso di aprire la pratica con ‘sto John Nash targato Tper nemmeno avendo il verbale in tasca, ma prima di andarsene, Andrea non rinuncia a dispensare all’uomo il consiglio che vorrebbe gridare all’Italia intera: “Studi le frazioni caro signore, se no lei non può fare questo lavoro.”

Durante la passeggiata verso la linea del ritorno attraverso il centro pedonalizzato, il sarcasmo si mescola all’amarezza per l’inevitabilità del disastro in cui versa il Bel Paese: “…perché l’istruzione di quel tizio non è un’eccezione, ma quasi la norma!” Da insegnanti quali entrambi sono o son stati, loro lo sanno fin troppo bene.

Alla fermata dell’autobus, ipovedente ed Angelo Custode hanno ormai un bisogno piuttosto insistente, perciò decidono di soddisfarlo prima di prendere il mezzo e si avviano verso la fermata successiva in cerca di un esercizio pubblico lungo il cammino.

Quello che sembrava un bar si rivela uno spaccio di kebab dove per conceder l’uso dei servizi igienici il cassiere magrebino pretende che facciano un po’ di spesa.

L’idea non li sfiora neppure, dato che quel sapore tanto speziato a loro non piace, e per giunta sono già impacciati dagli acquisti, perciò Andrea e Lucia passano oltre, ma anche il bar più vicino è gestito da persone di aspetto mediorientale che danno la chiave solo ai clienti.

Indispettiti da quella che par loro la violazione di un diritto, i nostri amici rinunciano di nuovo anche se – dopo i bisogni e per educazione, ma non per obbligo – un analcolico lo prenderebbero volentieri.

Al terzo locale “pubblico”, la barista cinese dichiara: “Il bagno non c’è!”

“Ma non è obbligatorio?” Sbotta Andrea, irritato.

“Noi abbiamo una licenza vecchia senza obbligo del bagno.” Lo tacita la pronipote di Mao Dze Dong.

Frustrati, il gatto e la volpe raggiungono la fermata senza incontrare altri locali pubblici, e così prendono l’autobus rassegnandosi a tenerla fino a casa.

“Macché Alma Mater Studiorum! – Sbotta lui fra il serio ed il faceto appena seduto – Macché Culla del Sapere, tanto ospitale da aver inventato i portici per dare un tetto agli studenti sotto il cielo di ogni umore! QUESTO È IL PAESE DEI BALOCCHI!!!” Conclude poi, in crescendo.

Lucia gli fa una carezza di approvazione. Sa che a volte si diventa un po’ irritabili, mentre si sta perdendo inesorabilmente la vista, ma in questo caso Andrea ha ragione da vendere.

“Allora vedi che ha ragione Remo, a dire che noi due assomigliamo al gatto e alla volpe?” Lo asseconda con un sorriso.

“SPERIMENTAZIONI DI CELLULE STAMINALI NELLE DEGENERAZIONI RETINICHE”

Quando all’ospedale mi dissero che l’arteriopatia degli arti inferiori di mio padre era giunta allo stadio in cui dovevano amputargli una gamba, mi ricordai che sette anni prima, all’inizio della malattia, io avevo scoperto in internet che all’ospedale Monzino di Milano stavano sviluppando una terapia genica per curarla.

Telefonai allora a Milano per sapere a che punto erano, e mi consigliarono di mandargli il vecchio su richiesta dell’ospedale, perché potevano aiutarlo, per giunta a carico del Servizio Sanitario Nazionale.                                                                                                                              Qui tentarono di farmi credere che vaneggiavo poiché loro non ne avevano nemmeno sentito parlare, ma io li costrinsi a telefonare al Monzino davanti a me, e così la gamba di mio padre fu salva.

Voglio dire che in Italia i dottori sono così occupati con il loro tran tran, che spesso non hanno tempo di indagare su cosa accade al mondo nel loro stesso campo, perciò se uno ha dei problemi di frontiera della medicina deve scoprire da solo se ci può fare qualcosa e dove, ed è per questo motivo che, seguendo da tempo la ricerca sulle degenerazioni della retina, ho pensato di fare cosa gradita a chi può interessare compilando al riguardo la tabella riassuntiva che segue.

Le informazioni sono tratte dai siti delle aziende coinvolte e da clinicaltrials.gov; presto segurranno alcune mie considerazioni conclusive su cui sollecito fin da ora il dibattito, in particolare da parte degli oculisti e degli altri addetti ai lavori che le leggeranno.

 

SPERIMENTAZIONI DI CELLULE STAMINALI NELLE DEGENERAZIONI RETINICHE
AZIENDA/CENTROCELLULE/TESSUTIMALATTIEINTERVENTO

FASE  In-Fin

LUOGO
UCL, Mo orlields Eye Hospital, Università di Sheffield“Toppe” di RPE coltivate da staminali embrionaliAMD secca ed essudativa, altreInnesto sottoretinico I    2015Londra
UCL, Moorlields Eye Hospital“Toppe” di RPE, cellule ematiche, vascolari e nervose derivate da IPSAMD secca ed essudativa, altreInnesto sottoretinico    II   2016Londra
Astellas (ex ACT adesso Ocata)Cellule di RPE derivate da staminali embrionali umaneSMDTrapianto sottoretinico I –  II 2011 2015Edimburgo, Londra, Newcastle, Los Angeles, Miami
Astellas (ex ACT adesso Ocata)Cellule di RPE derivate da staminali embrionali umaneAMD seccaIniezione sottoretinica  I – II 2011 2015Los Angeles, Miami, Boston, Philadelphia
Cell Cure Neurosciences LtdOpRegen: cellule di RPE derivate da staminali embrionali umane, in soluzione oftalmicaGATrapianto sottoretinicoI – IIa 2015 2017Gerusalemme
jCytehRPCRPIniezione intravitreale?   2015   2016Los Angeles, Irvine (CA)
ReNeuronhRPCRPImpianto sottoretinico con vitrectomiaI – II   2015   2017Boston
Stem Cell Inc.hCNS-SCGATrapianto sottoretinico I – II  2012  2015Los Angeles, Palo Alto (CA), New York

 

LEGENDA                                                                                                                                     In-Fin           : Inizio-Fine                                                                                                  UCL               :University College London                                                                     RPE               :Epitelio Retinico Pigmentato                                                               AMD            :Degenerazione Maculare Senile                                                         GA                 :Geographic Atrophy (forma avanzata di AMD secca)         SMD             :Distrofia Maculare di Stargart                                                              MD               :Degenerazione Maculare                                                                        hRPC           :Progenitori Retinici umani                                                                      RP                 :Retinite Pigmentosa                                                                                    IPS                :Staminali Pluripotenti indotte                                                              hCNS-SC  :Cellule Staminali umane del Sistema Nervoso Centrale

 

 

TRASPORTI EMILIA ROMAGNA, LETTERA AL PRESIDENTE

TRASPORTI EMILIA ROMAGNA, LETTERA AL PRESIDENTE

 Spett. T>per

c.a. Giuseppina Gualtieri

Gentile Presidente,

con riferimento alla sua missiva avente ad oggetto: “Rinnovo Abbonamento”, comunico che grazie all’obliterazione obbligatoria anche per le tessere annuali che vi annuncia, sto meditando se sia ancora il caso di rinnovare la mia.

Come per la maggior parte degli utenti, infatti, anche per me la validazione obbligatoria di tutti i percorsi comporta disagi molto fastidiosi, che riducono quasi a zero la convenienza dell’abbonamento.

 Chi ha handicap visivi fatica ad individuare la macchinetta obliteratrice e/o ad effettuare correttamente la convalida.

Chi ha inabilità motorie vede svanire le possibilità di sedersi, in quanto non può più scavalcare la fila, ed anzi è costretto ad accodarsi inevitabilmente in ultima posizione a causa delle proprie difficoltà.

Tutti devono moltiplicare le manovre con tasche e portafogli per estrarre e riporre la tessera, moltiplicando il rischio di smarrimento dell’una e degli altri.

Le medesime manovre espongono molto di più al rischio di taccheggio, soprattutto chi è meno attento, come gli anziani.

Per la stessa incolpevole ragione, poi, fra una corsa e l’altra queste persone dimenticheranno spesso di adempiere all’obbligo, risultando così esposte al rischio di sanzioni tanto frequenti ed ingiuste, quanto odiose.

Inoltre, a causa del pesante ostacolo al flusso dei passeggeri che così si instaura, si rallenterà persino la velocità commerciale del mezzo.

Infine, c’è chi obietta che l’obbligo sia addirittura contro la legge per violazione della privacy, vanificando anche la possibilità di utilizzare le rilevazioni a scopi statistici.

 Concludendo, la geniale trovata dell’obbligo di obliterazione anche per gli abbonamenti, introdotta “per il miglioramento del servizio”, lo peggiora invece gravemente, anche tenendo conto della vera ragione che forse l’ha suggerita: il cospicuo incremento di incassi per multe ingiustificate all’innumerevole esercito di pensionati sonnacchiosi che del bus non possono proprio fare a meno.

 Cordiali saluti

 Fernando De Benedictis

Teoria Assiomatica della Metafisica Evoluzionistica

Teoria Assiomatica della Metafisica Evoluzionistica

“Teoria assiomatica della metafisica evoluzionistica?”……  Cazzo!!! Viene il mal di mare solo a leggere il titolo.

Vabbe’, proviamoci lo stesso.

I° POSTULATO: “Un giorno l’Umanità  sarà in grado di navigare fra le stelle e le galassie”

Dunque, partiamo da qui, dal fatto che noi umani in giro fra le stelle non ci sappiamo ancora andare, ma prima o poi ci riusciremo, come siamo riusciti a volare, ad inabissarci nelle profondità del mare e magari, fra un po’, con qualche altro progresso della biologia, a vivere a tempo indeterminato.

 Naturalmente uscire dal sistema solare sarà una conquista difficile, perché per andare avanti e indietro fra una stella e l’altra, in tempi compatibili con la durata della vita, bisognerebbe muoversi a velocità assai superiori a quella della luce, e questo è un bel problema.

Per comprenderlo, basti pensare che la stella più vicina si trova a 4 anni luce da qui, e le altre a decine, centinaia, migliaia, milioni e miliardi di anni luce. Questo significa che la luce, alla velocità di 300000 chilometri al secondo, impiega 4, o rispettivamente decine, centinaia, migliaia, milioni e miliardi di anni per coprire queste distanze, e pertanto che noi non siamo ancora in grado di percorrerle, almeno per ora.

La velocità della luce, infatti, è una soglia assai complicata, perché tanto per dirne una, man mano che ci si avvicina il tempo a bordo dell’astronave scorre sempre più lento, fino a fermarsi del tutto quando si raggiunge, mentre a casa il suo ritmo rimane sempre lo stesso. In conseguenza di ciò, al ritorno da un fine settimana a quella velocità su Alfa Centauri (4 anni luce) noi saremmo invecchiati di un paio di giorni, ma nostra moglie di 8 anni, e dopo alcuni week end, i giovani astronauti potrebbero dover accudire all’ospizio dei figli ormai canuti e incartapecoriti.

 Andare più veloci è ancora più difficile, tanto che la Hack, Pacini e Piero Angela sostengono che sia impossibile.

In realtà, le equazioni universalmente accettate della fisica non lo escludono affatto, a condizione di accettare di compiere il viaggio immersi in una realtà di sapore onirico,  una sorta di iperuranio a-causale ed incontrollabile, dove la nostra stessa ciccia, la materia di cui siamo fatti, dovrebbe avere proprietà tanto sconosciute da doversi misurare con i numeri immaginari, che sono una bella invenzione matematica, ma di significato fisico, se esistente, ahimè ancora oscuro.

 Le massime velocità accessibili alla nostra attuale tecnologia di navigazione inerziale sono dell’ordine di qualche centomila chilometri l’ora, ossia qualche migliaio di volte inferiori alla velocità della luce, e a questo passo, un viaggio fino alla stella più vicina richiederebbe delle ferie di circa 30000 anni, pertanto è evidente che, a meno di scoperte rivoluzionarie, non possiamo ancora pianificarlo.  Non è un problema tecnologico, è un problema scientifico, ma se con il progresso siamo riusciti a passare dai segnali di fumo alla televisione, io credo che prima o poi lo risolveremo.

 II° POSTULATO: “Nell’universo la vita è la regola, non l’eccezione” 

 Un’altra cosa di cui sono convinto al punto che per me ha il sapore di un assioma, è che nell’universo la vita sia la regola anziché l’eccezione, il che porta ad immaginarlo popolato da un’infinità (cosa molto diversa da: “infinite”) di specie viventi diversissime le une dalle altre.

Ora, poiché il progresso è un processo evolutivo, e in quanto principio scientifico l’evoluzione dovrebbe avere validità universale, ne consegue che il creato dovrebbe pullulare degli esseri più svariati, ai più svariati stadi di sviluppo: da quelli molto antecedenti il nostro, a quelli assai più avanzati, capaci di navigare fra le galassie e chissà di che altro.

Naturalmente è difficile immaginare una civiltà assai più avanzata di quella in cui siamo nati e viviamo, sia in considerazione del fatto che la scienza è già molto progredita e sempre più veloce quaggiù, sia soprattutto delle prospettive conseguenti in campo biologico: che senso avrebbe, infatti, il mondo intero così come lo conosciamo, per un’umanità immortale o anche solo emortale?

LA TEORIA DELLA METAFISICA EVOLUZIONISTICA

Se l’universo fosse infinito, dai due postulati precedenti conseguirebbe necessariamente che esso ospita infinite stirpi in grado di navigare fra stelle e galassie, e quindi il fatto che la terra sia da molto tempo nei rispettivi cataloghi turistici sarebbe un teorema.

Siccome però all’attuale livello di conoscenza non possiamo sapere nulla riguardo ad oggetti più lontani di una quindicina di miliardi di anni luce, al cui interno sta un universo finito, queste affermazioni possono aspirare solo al rango di teorie. 

Tuttavia, ci sono cento miliardi di stelle solo nella nostra galassia, e a loro volta pure le galassie si contano a miliardi, quindi anche solo l’universuccio alla portata dei nostri telescopi offre un tale numero di possibilità alla teoria, da renderla a mio avviso assai più attendibile statisticamente del più ritardatario dei numeri ritardatari al gioco del lotto, e noi sappiamo bene che benché ad ogni estrazione le probabilità di uscita siano sempre le stesse, alla fine i ritardatari sono sempre usciti. 

 Dunque, la probabilità che gli alieni esistano è quasi una certezza, e che siano arrivati fin qui è inferiore solo di poco, perciò cercarli seriamente è doveroso, anche in mezzo a noi.

 La domanda di Fermi: “Ma allora, perché non si vedono?”

 Io non lo so, né so di preciso a quando risalgano le prime tracce di vita sulla terra.

Sta di fatto che il nostro pianeta ha sui 3-4 miliardi di anni, e l’universo un po’ meno di una quindicina. Il ramo evolutivo di tipo ominide ha cominciato a differenziarsi dall’albero genealogico delle scimmie antropomorfe sui 6 milioni di anni fa, l’uomo di Neanderthal s’aggirava per l’Europa circa centomila anni orsono, il Cro Magnon trentamila, la scrittura avrà sì e no cinquemila anni, la radio 100, la televisione 60, internet 37, la pecora Dolly 9… 

A quando la resurrezione dei mammouth?

Secondo alcuni fra non molto, ma allora che ci sarà fra cento, duecento o più anni? Ovvero: di cosa sono capaci, che proprietà hanno gli esseri che a quel livello sono già arrivati?

E che ce ne siano tanti, di varia provenienza,  è assai probabile sia per quanto già visto, sia in considerazione del fatto che sulle scale temporali accennate un divario di civiltà di alcune migliaia di anni è una bazzecola.

Per convincersene non c’è bisogno di andare tanto lontano.  In questo preciso istante, è in atto un gigantesco trasferimento tecnologico sulla terra stessa, fra società umane separate in origine da millenni di progresso, se è vero, come è vero, che ancora il secolo scorso alcune di esse non conoscevano ancora né la scrittura né la ruota, e usavano utensili di pietra scheggiata, cioè che vivevano a tutti gli effetti nel paleolitico, nonostante il resto del mondo fosse ormai prossimo a sbarcare sulla luna.

Certo è che bisogna avere l’umiltà di riconoscere che se degli alieni più avanzati di noi di quanto basta per navigare fra le stelle non volessero mostrarsi, questo non sarebbe un problema per loro.

Quindi, siccome non abbiamo ancora prove della loro presenza, significa che se sono qui non vogliono rivelarsi, e se sono addirittura di provenienze diverse, si sono anche accordati in questo senso.

Ma perché?

Boh! Le ipotesi sono tante, più o meno verosimili, ai miei occhi tanto meno quanto più si rifanno ai modelli socioculturali umani, cioè propri di una specie per definizione assai più arretrata di quelle sotto indagine.

Tuttavia, un modello interpretativo coerente con tutti i dati, le conoscenze e le sapienze disponibili è possibile e, lo dico a malincuore sapendo di suscitare un vespaio, riconduce alle verità rivelate in modo assai più congruente di qualsiasi professione di fede a priori, a favore o contro che sia.

Intanto bisogna dire che, per questi esseri, l’esperienza esistenziale deve essere per forza qualcosa di assolutamente “altro” dalla nostra.

Se anche fosse partita dalla stessa base biologica, infatti, ormai la loro vita sarà immortale o almeno emortale, allora essi avranno cessato di moltiplicarsi, e se pure ancora si riproducono, lo fanno in una dimensione magari localizzata, ma necessariamente infinita, ossia metafisica… 

Ahiahiahi!!! Lo so che ora comincerà il lancio di pietre, ma francamente, questo mi sembra l’unico esito possibile di un’evoluzione che abbia portato all’immortalità. Anche perché non ci vedo proprio niente di strano nemmeno nella prospettiva più tenacemente materialista.

Per quanto ne sappiamo, infatti, l’essere è fatto di energia, di cui la materia è solo uno stato, quindi una qualche intuizione della personalità in termini metafisici, ancorché verosimile è del tutto naturale, solo che si riconosca alla pura energia la possibilità di organizzarsi in forme pensanti, capaci di interagire con la materia.  

In quest’ottica, tutto si ricompone: scienza e religione non hanno più bisogno di farsi la guerra.

Se ciò che è necessario per superare la velocità della luce è la massa immaginaria (che strana coincidenza il nome di questa classe di numeri, vero?), che durante il viaggio ci farebbe sprofondare in una realtà onirica, magari è proprio in questa dimensione psichica che si deve ricercare il significato del termine stesso e la possibilità di trattare il concetto operativamente.

Del resto, la realtà di questo stato cosiddetto “alterato” di coscienza non è minore di quella dello stato ordinario, visto che spesso per il senziente è del tutto indistinguibile.

Ma chi ha accesso volontario ad una dimensione metafisica dà conto senza contraddizioni non solo di tutte le verità rivelate, ma anche dei fenomeni parapsicologici (e a mio avviso ce ne sono) oggettivamente inspiegabili, ovviando all’apparente violazione del principio di causalità, e quindi alla non ripetibilità degli esperimenti, con l’azione di volontà occulte capaci di condizionarli a piacimento, del tutto legittime anche sul piano scientifico.

E che dire se entità siffatte si servissero più o meno amichevolmente dei sensi e delle altre proprietà biologiche di esseri  semplici come noi per indagare ed operare nel mondo? Avremmo a che fare con individui transpersonali, fatti di persone come noi siamo fatti di cellule, ognuna delle quali è un essere vivente a sé stante, estesi magari sull’intero pianeta, in aggregazioni perlopiù instabili, simili a fluidi di umanità in permanente turbolenza di mescolamento.

Non avrebbero un  senso più  comprensibile, in questo modo, certi comportamenti collettivi altrimenti inspiegabili, come le grandi conquiste o le guerre insensate?

Per un gruppo di una decina appena di amici è quasi impossibile riuscire a mettersi d’accordo sul film  da andare a vedere prima dell’ultimo spettacolo, eppure milioni di uomini si sono mossi all’unisono per andare sulla luna, e alla fine l’hanno fatto, e viceversa, nei flutti in tempesta dell’odio etnico o religioso si sono scannati come maiali mariti e mogli, padri e figli. 

 Gli alieni in questione non sarebbero potuti apparire che come angeli o dei, agli occhi di quei nostri avi cui si fossero palesati per qualche motivo, ma probabilmente anche ai nostri, e senza che ciò alteri in alcun modo l’idea di Dio. Chi non ci crede potrà perseverare senza contraddizioni nell’ateismo anche accettando la particolare visione evoluzionistica di queste righe, e chi invece ha fede in un Essere supremo non la perderà certo ammettendo fra noi e Lui schiere infinite di creature intermedie, anzi: la personificazione su scala cosmica della lotta perenne fra il bene e il male assumerebbe connotati più comprensibili, e la vittoria finale del bene maggiore certezza.

 “Ogni volta che due di voi si riuniranno nel mio nome, io sarò lì”, disse Colui che ha vinto il principe del mondo, la Vite che riunisce in sé i tralci di tutta l’umanità, il figlio dell’Uomo che nell’eternità ha sconfitto la morte, e con il progresso porterà la vittoria nel tempo.

Saluti a tutti

 Fernando  De Benedictis.

 

HOW IS IT THAT I HAVEN’T YET HEARD OF IT? (Combined photovoltaic-hydrogen fed thermoelectric power plant)

The sun sends on Earth such a big amount of energy, that even a minimal part of it could be sufficient to solve all mankind’s problems of power.

Unluckily, the star has the lack of shining when it is not needed, that is in day-time and in summer, when it’s bright and warm, and of being absent in dark and cold time, when it would be much more useful; moreover, convenient means for storing its energy in useful quantity do not exist, therefore the photovoltaic power found a very hard start.

It goes better since when it’s possible transferring in the electrical net the energy collected in excess with respect to the need, but even so, a huge conventional production is also required, for feeding the net in the absence of sun, therefore giving up with oil thanks it, was still utopia until little ago.

For some time, however, it has been available a device which changes things radically, so I foresee that within few lustrums all the fixed thermoelectric power plants will be substituted by the new solar plants which this device makes possible, with a decrease of the oil consumption of at least 50% worldwide.

The idea is so simple, that I wonder I did not yet hear debating it around, therefore I start myself, in case really nobody has yet conceived it,  with the hope that at least the most combative greens will support it.

The device which could allow changing the face of Earth is the endothermic piston engine running on hydrogen, that in truth was developed for auto drive, and perhaps is just the legitimate scepticism about this use that prevents from conceiving others, much more useful and probable.

Hydrogen, in fact, is a gas so light and hard to be liquefied, that for storing the equivalent of 100 litres of gasoline in an auto tank, there is need of an enormous pressure and/or a much lower temperature than that of the most icy Antarctic frost; conditions, these, so hard to be realized economically and safely in an automobile, that personally I wouldn’t bet even 10 cents on the commercial success of this engine in the automotive field.

In a fixed plant, however, the problem of size of a car does not arise, nor does, therefore, that of compressing and cooling down the hydrogen.  In fact, if for the said equivalent of 100 litres of gasoline there is need, at “normal” pressure and temperature, of a 100 cubic metres tank (for instance: a cube with sides few longer than 4.5 metres), building it is not a technical problem, nor economic.

It may then be conceived as follows a photovoltaic plant sized upon the power of the hydrogen-engine.  It consists of the engine itself that, coupled to a generator, will produce current during night, of a tank capacious enough to feed the engine while the sun is absent, of a plant producing hydrogen for the night, and of as many photovoltaic collectors as needed for producing the electricity equal to the sum of the external, diurnal demand and of that for separating hydrogen from water.

So, the few thermoelectric plants currently running, gigantic and polluting, will be substituted by a myriad of photovoltaic-self fed thermoelectric plants, small, very clean, and with no greenhouse effect.

Initially, the kilowatt-hour’s cost could increase a bit, but the savings on the fuel and the rapid descent of the plant’s costs with increasing production would let it diminish briefly… Besides, shan’t we consider the satisfaction of backing out of the oil blackmail, of resetting the greenhouse effect, and of having clean air everywhere?

About innovation everybody is always spouting off… let’s see. The European Union allocates a lot of money for realizing it concretely.