La marmitta ed il grembiule

Scegliendo i libri dall’armadietto, Battista rammentò con piacere le immersioni nelle acque limpide del Giglio e i dolci tramonti di Campese.
Da quella spiaggetta al centro del piccolo golfo, che ogni sera sta in prima fila davanti alla lenta discesa del sole negli abissi, gli piaceva assistere allo spettacolo in solitudine, richiamando sul magico sfondo, con generose manciate di pane secco, le vorticose frenesie di gabbiani che tanto amava.
Ma quello era il primo giorno di lezione, che per Battista segnava da sempre il vero inizio dell’anno scolastico; per giunta, il cielo era scuro e minaccioso, perciò la memoria, ormai, stava già sfumando il bel ricordo nei toni del passato.

“Ciao, prufessò! Si ricomincia, eh?” Disse Mastroballante alle sue spalle. Lui si voltò sfogliando il testo del corso fra le mani.
“Ciao Mastro, ti sei saziato, di tarantelle, quest’estate?”
“Eccome no! – Esclamò l’altro con un saltello e una mezza riverenza – Tarantella, pizzica… di tutto. Pure ieri sera.”
Battista osservò l’insolita posa: “É il ballo di Pulcinella, la pizzica?” Domandò, con un interesse esagerato.
“Ma qua’ Pulcinella! Ci stanno un sacco di ragazze, dovresti venire pure tu qualche volta.”
“Sono sposato, Mastro, e pigro come un gatto, lo sai… – Rispose – Ma parliamo di cose serie piuttosto: allora quest’anno me la dai, una mano, o no?”
“Eeehhh, sì… te l’ho detto: mo che Cattani mi da una traccia…”
“Va bene, ma intanto vedi se riesci a farmi almeno il foglio elettronico, prima che finisca di nuovo l’anno… Guarda qua: sono appena una trentina di pagine; io inizio con la teoria per almeno quattro o cinque settimane, così hai tutto il tempo per dargli un’occhiata, poi tu fai due o tre lezioni su Excel dopo la prima verifica, in modo che io possa preparare i passi successivi con un po’ di respiro… Te la senti?”
Mastroballante scosse la testa a labbra strette, in un gesto di assenso che voleva mettere ben in chiaro il pesante sforzo dell’impegno, dopo di che si avviarono entrambi verso la terza B2.

La sentinella sull’uscio si precipitò in aula appena li vide svoltare intorno al pilastro delle scale, e subito, da dentro si levò un potente “chicchirichììììì!!!”, che, come la prima volta, risuonò beffardo in tutta la scuola.
Mastro abbozzò un risolino divertito, Battista si augurò che quell’imbecille non fosse toccato proprio a lui.
Giunto in aula, invece, si rese conto che la realtà era ben peggio, secondo il suo modo di vedere, infatti, li aveva tutti e tre gli incursori del collegio, e con la ragazza, il poker d’assi si chiudeva.
La fila davanti era semivuota. Nel banco proprio di fronte alla cattedra, lei, a gambe accavallate nell’inutile minigonna, esibiva lo Swarowsky nell’ombelico, e come non bastasse, metteva in bella mostra tutto ciò che, ai tempi del professore, il costume più audace avrebbe rimandato al sospirato mistero dell’intimità, mentre ora ammetteva il più morigerato – in nome dell’emancipazione – forse persino in chiesa.
Seguivano due file e mezza di volti maschili ancora sconosciuti che lo guardavano curiosi, e infine, annidati in fondo a sinistra, i tre del karatè o, se si preferisce, del chicchirichì.
Il più piccolo stava proprio nell’angolo, con un sorrisetto provocatorio, acquattato sul banco come per nascondersi meglio dietro a quelli intorno; il karateka, cupo in viso, lo copriva a sinistra con la sua stazza poderosa, e il terzo sedeva composto nella colonna accanto, vicino ad un ragazzo mai visto dall’espressione attenta.
I professori salutarono e si presentarono, poi Battista iniziò l’appello.
Giunto a Malomo, l’esperto di arti marziali si alzò, e accennando al compagno di banco, disse: “Sono io prof… Adesso che ci ha chiamato, possiamo uscire, io e Bazza?”
Nel sollevare lo sguardo dal registro, l’insegnante non poté evitare di scorrere dai tacchi ai capelli il quadro sensuale in primo piano davanti ai suoi occhi, e benché involontario, un brivido gli percorse la schiena.
Cercò il nome della ragazza nell’elenco, e, fra lo stupore generale, ordinò: “Naomi, vai a farti prestare un grembiule dalle bidelle.”
Lei parve trasecolare. “Ma… prof!!!” Protestò.
“Cosa c’è?”
“Scherza, vero?”
“Neanche per sogno, dico sul serio. Vai a farti dare un grembiule dalle bidelle e indossalo.”
“Ma non lo fa nessuno, prof! Non può mica costringermi lei a portare il grembiule!!!”
“No, ma a vestirti sì. Quando ci sono io, in classe vieni vestita, se no puoi stare anche nuda, però fuori; scegli tu.”
La ragazza pestò un piede con un gesto di stizza.
“Ma non è giusto! – Ribatté – Lei non può imporre come ci dobbiamo vestire… e se mi costringe, io vado a dirlo al preside.”
“Dillo a chi vuoi: ne hai diritto. Quanto a cosa sia giusto o no, avremo tempo di chiarirci meglio; intanto, però, qui comando io, signorina Fornaciari, perciò adesso piantala di fare storie, e vai.”
Lei fece per dire ancora qualcosa, ma poi obbedì di malumore, borbottando minacciose proteste senza preoccuparsi di non essere udita.
Terminato l’intermezzo, Malomo alzò la mano prima che Battista proseguisse l’appello dimenticandosi di lui, e allo sguardo interrogativo che ne seguì, fece di nuovo la sua richiesta: “Allora prof, adesso possiamo uscire, io e Bazza?”
Il professore scrutò lo sguardo buio del ragazzo, esibendo del suo un sorriso appena accennato.
“Siete siamesi voi due, che dovete uscire insieme?” Domandò.
“No prof, siamo Italiani, noi.”
Il sorrisetto di Battista si allargò in modo impercettibile; alcuni degli Italiani risero sarcasticamente.
“Intendevo dire ‘gemelli siamesi’: quelli che hanno qualche parte del corpo in comune, e devono fare tutto insieme perché non si possono staccare.”
“Ah, scusi, prof, ha ragione… Possiamo uscire, allora?”
“Non mi hai risposto… di che strana forma d’incontinenza sincronizzata soffrite, da dover andare a far pipì insieme, senza poter nemmeno aspettare l’appello della prima ora?”
“Ma no, prof, non è per andare in bagno.”
“E allora per cosa?”
“Maaahhh, ecco… Hanno rubato la marmitta di Bazza.”
“O bella, e quando, che siete appena entrati?”
“Ieri, prof.”
“Scusa, sai, ma mi devi spiegare, perché da solo non ci arrivo. Ieri hanno rubato la marmitta di Bazzagli, e oggi tu e lui volete uscire insieme… Per andare dove? A fare cosa? E poi cosa c’entri, tu, con la marmitta di Bazzagli?”
“Io e Bazza siamo amici da piccoli, prof.”
“Embe’?”
Malomo si volse un po’ a sinistra, verso il terzo elemento della compagnia del chicchirichì.
“Oggi Conte ha scoperto chi è stato.” Disse.
“Embe’?”
“É un balordo qui di San Lazzaro… uno che conosciamo e sappiamo dove trovarlo.”
“Non mi dire! E voi volete fare giustizia con una lezione indimenticabile, se ho capito bene, vero?”
Ritrovando di botto il sorriso ebete di poco prima, Bazzagli si strinse nelle spalle, allargando le braccia a palmi aperti come per dire: “Be’… è ovvio, no?”, ma fu di nuovo Malomo a parlare anche per lui.
“Beeehhh, sa com’è, prof…” Disse, accennando per la prima volta un mezzo risolino.
“Eh, sì… – convenne questi affettatamente – lo so. Ma il regolamento d’istituto dice che si esce uno solo per volta, che non si può prima della terza ora, e che non si lascia la scuola… Quello di stato invece, che si chiama legge, dice che la giustizia è affar suo, e le faide sono proibite, perciò rilassatevi. Anzi, adesso tu ti sposti lì, e tu, Bazza, dall’altra parte.” Così dicendo, indicò loro i banchi alle estremità della prima fila: Malomo a destra della cattedra, e il compare a sinistra.
Questi ritrovò d’incanto la voce. “No, prof! Da solo?” Gemette.
“Sì Bazzagli, ma se fa buio accendiamo la luce… te lo prometto.”
Malomo, invece, pretendeva il diritto all’apartheid: “No, prof, mi dispiace, ma io in mezzo ai Marocchini non ci vado.” Dichiarò.
“Come hai detto? – Ribatté Battista a muso duro – Senti, non vorrei sporcarti la ‘fedina’ dal primo giorno con una nota per intemperanze razziali, ma hai un modo solo per evitarlo: conformarti senza discutere oltre, e chiedere scusa per quello che hai detto.”
Malomo esitò, combattuto fra un impulso di rabbia e un barlume di buon senso, ma infine obbedì, e l’amico lo imitò subito dopo.

Al termine dell’appello, risultò che Bazzagli, Malomo e Conte erano ripetenti della terza liceo dell’anno prima, la ragazza proveniva anch’essa da una terza, ma di un’altra scuola, e il resto della classe era l’assortimento multietnico degli alunni di varie seconde che avevano scelto di proseguire con la meccanica.
Gli stranieri stavano perlopiù a destra, la maggior parte degli Italiani a sinistra, e in centro, i colori si mescolavano come le acque di un fiume a quelle del mare nei pressi della foce.
Qui, in seconda fila dietro alla Fornaciari, sedeva Vivarelli, la “sentinella”: un tipo sveglio che ebbe l’incarico di disegnare la pianta della classe; durante le ore di sistemi, ci si sarebbe dovuti attenere sempre ad essa.

In attesa del lavoro di Vivarelli, i due insegnanti si dedicarono ad approfondire la conoscenza dei ragazzi. Mastroballante si aggirava fra i banchi soffermandosi qua e là a parlottare con loro, e intanto Battista li intratteneva dalla cattedra informandosi sui nomi, i luoghi di provenienza ed i precedenti.
Ne venne fuori un quadro preoccupante: riguardo al grado di preparazione generale, si addensavano seri dubbi su molti, e quanto alle attitudini, sembrava che qualche elemento non fosse affatto portato al rigore della scienza, ma peggio di tutto era la Babele linguistica, visto che almeno la metà degli stranieri era appena arrivata in Italia dai posti più strampalati del mondo, senza sapere una parola d’Italiano.
“E adesso come gliele racconto le espressioni logiche, a questi qui?” Si domandò Battista, costernato.
Ad ogni modo, dopo che Vivarelli gli ebbe consegnato la piantina iniziò a provarci, sfumando quasi inavvertibilmente dall’intrattenimento ai primi segreti dell’elettrotecnica.

Aveva appena cominciato, che la Fornaciari rientrò negli stessi panni in cui era uscita.
“Mi ha autorizzato il preside!” Proclamò sedendosi al suo posto con aria trionfante, in risposta a quella interrogativa di Battista.
Ma la replica, asciutta, non tardò più di un attimo: “Vagli a dire che qui ci sono io, e finché ci sono io, tu in classe, nuda, non entri… Adesso va’ a metterti un grembiule, o resta fuori fino alla fine delle mie ore. Sono stato chiaro?”
Di nuovo, lei fece per ribattere, ma poi ci rinunciò. si alzò lentamente, ed uscì.

Poco dopo, s’udì bussare leggermente alla porta, e all’invito di Battista ad entrare, la ragazza la socchiuse appena.
“Prof, le bidelle non ce l’hanno un grembiule per me… – Disse dallo spiraglio – Posso stare in classe così, per oggi?”
Le fu concesso un permesso straordinario, in cambio della promessa di un abbigliamento a venire più consono, poi l’ora si avviò al termine senza altri incidenti.

“Il professor Battista” e-book: http://www.librinmente.it/home/58-il-professor-battista-9788894995616.html

“Il professor Battista” edizione cartacea: https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/388270/il-professor-battista/

LIBRI AL ROGO

Nel romanzo “Il professor Battista” si intuisce fin dal titolo la denuncia che l’odierna società del consenso obbligato è fondata sulla menzogna e, come ai tempi di Gesù, quando il Battista anacoreta tuonava nel deserto contro la turpitudine del potere, ancora oggi chi osa anche solo mettere in dubbio le verità di comodo del sistema è ridotto al silenzio con ogni mezzo.
L’atteggiamento di Facebook sul brano del libro che segue più giù ne è una dimostrazione eclatante.
Il passo riporta il dialogo che avviene in pullman fra una studentessa e l’insegnante che accompagna la sua classe in una gita scolastica a Monaco. Tratta un tema delicato, ma da prospettive opposte ed altrettanto legittime, con garbo e senza che l’autore ne faccia propria alcuna, inoltre, come si conviene ad un romanzo, fatti e personaggi sono dichiaratamente inventati. Non contiene quindi alcun elemento offensivo per persone, ideologie, religioni, identità di genere eccetera, eppure Facebook, pur dopo averne sollecitato una campagna promozionale grazie al suo buon impatto sul pubblico, al momento di lanciarla ha ritirato il consenso per una presunta violazione proprio di tale principio…
Non riesco a vederci un appiglio se non, forse, nel disagio per il racconto della ragazza, ma questo descrive una situazione assolutamente realistica, seppur fortunatamente rara, e io stesso posso testimoniarne di analoghe.
Dunque? Al rogo i libri? Libri al rogo?

ALLA RETE L’ARDUA SENTENZA

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Il sole che splendeva fuori, sul tenero verdeggiare della primavera, non aveva ancora rischiarato del tutto il plumbeo scenario emotivo del racconto di Tomat, che, almeno a Davide, fu il sopraggiungere di Lilly Carati ad illuminare lo sguardo.
Disse che il pullman le dava un po’ di mal di testa, e domandò se poteva sedere lì davanti con loro, ottenendo ovviamente il pronto assenso di Battista, che si affrettò a sgombrare la poltrona accanto a lui da zainetto, macchina fotografica ed aggeggi vari.

Il viso di porcellana di Elisabetta Carati era pallido e pensieroso, ma questo non offuscava per nulla la sua bellezza, ed anzi, le dava un’aria più consapevole di quanto ci si potrebbe attendere, in una ragazza della sua età, che ne accresceva il richiamo con un’aura di mistero.
Sericei capelli biondi che splendevano come oro, grandi firme in ogni capo del morbido abbigliamento, unghie decorate in ceramica, con un sole al tramonto raggiato di allegre fiammelle nel cielo rosso sangue, trucco accurato ed accessori preziosi, un delicato profumo di ortensia che Battista non si stancava di annusare con discrezione… ogni particolare rivelava in lei l’appartenenza ad un ceto di levatura superiore.

Nelle poltroncine della fila a fianco, anche Davide tracciava nell’aria degli impercettibili ghirigori col naso, sulle scie della sua fragranza, Riccardina, invece, osservava ora lei ora l’esagerata allerta del compagno di banco con le orecchie ben tese a non perdere nemmeno una parola della nuova venuta.
Frequentando la terza A1, Lilly era con le allegre ragazze della Bubola in mezzo al bus, ma quel giorno, lei non se la sentiva proprio di ridere su tutto e tutti come una scema, perciò era venuta a rilassarsi un poco in mezzo ai grandi, e anzi, se la prof ne aveva voglia, avrebbe fatto volentieri due chiacchiere con lei.

La Bubola accettò di buon grado, quindi Battista offrì alla prof di scambiarsi di posto con lei, in modo che le due giovani donne, stando affiancate, potessero discorrere più tranquillamente; al signor Tomat avrebbe fatto compagnia lui.

“Mamma mia che colorito, Lilly! – Esclamò la professoressa quando si avvide dell’espressione sofferente sul viso della sua alunna – Ho delle gomme da masticare contro il mal d’auto, ne vuoi una?”
Lei declinò l’offerta. Probabilmente non era nemmeno il pullman la causa del suo malessere: già da un paio di giorni si sentiva così.
Impressionata, la Bubola scavò nella borsa: anche a lei facevano sempre un gran male, quindi l’Optalidon non vi mancava mai, e quando l’ebbe trovato, glielo porse garbatamente.
“Saranno cose di donne!” Bisbigliò Davide, con aria saccente, all’orecchio dell’inseparabile amica.
“Certamente… – rispose lei – e magari anche più di quanto tu creda.”
La Carati rinunciò di nuovo con un gesto della mano, quindi cambiò discorso, e chiese alla professoressa se fosse sposata.

La Bubola non si stupì della domanda, né parve contrariata per l’improvvisa irruzione nella sua sfera personale; al contrario, sembrò quasi contenta di poterne parlare, come se avesse bisogno di farlo da tempo, ma non ne avesse mai avuta l’occasione.
Non era sposata: era stata fidanzata al paese fino a quando aveva deciso di trasferirsi a Bologna, ma a quel punto s’era aperta una profonda crisi, e poco dopo, lei e Luigi avevano rotto.
Erano entrambi salentini; lui vagheggiava una famiglia fortemente legata alle tradizioni della sua amata terra, perciò non voleva staccarsene, e d’altra parte non aveva alcun motivo per farlo, visto che era figlio di un maggiorente locale, proprietario di terre ed oliveti; lei, invece, voleva lavorare a tutti i costi per ottenere l’indipendenza che le avrebbe consentito di non dover mai sottostare ad un’altra volontà per bisogno, e poiché giù non c’era lavoro, salire al nord era stato quasi una scelta obbligata.

Era quel “quasi” che la tormentava ancora oggi con mille dubbi e non pochi rimpianti.
Sì, perché loro due si erano voluti veramente bene, e Luigi, poi, era una persona salda come una roccia, su cui si poteva fare affidamento assoluto, e dopo, lei non ne aveva più conosciute, così; dopo, le persone serie sembravano completamente sparite dal mondo.
Invece c’è un gran bisogno, di unità… Non si fa altro che proclamare che siamo uno: maschio e femmina una creatura sola, e si sente anche nell’intimo, che questa è una verità fondamentale, ma poi tutto quello che si riesce a fare produce solo divisione… una contro l’altro armati… C’è qualcosa di sbagliato, non va bene così.

Ad ogni modo, ormai era andata e non si poteva più tornare indietro: in meno di due anni, Luigi s’era sposato con un’altra, e ora aveva un bel maschietto di otto anni, uno di quattro, e la bambina che aspettava tanto era appena arrivata.

Quando erano fidanzati, amavano guardare insieme i documentari sulla natura… quanti ne avevano visti, e quanto li appassionavano entrambi!
Ma ora, Daisy aveva la sensazione che solo lui avesse veramente compreso il significato di tutte quelle esibizioni, quelle lotte feroci in cui i maschi mettono in gioco la vita stessa, di quel corri corri di ogni creatura vivente per trovare l’altra metà di sé e prepararsi insieme ad accogliere i piccoli nel mondo come si deve. In natura, in tutta la natura, questo vuol dire farlo in tempo, perché quando il momento giusto è passato, poi non torna più.
Ciò che la natura vuole in cambio delle ali forti che consentiranno al pulcino di affrontare la migrazione autunnale, regalando ai genitori il senso profondo della vita che dà gioia, è il duro sacrificio scritto nel mondo a chiare lettere, ed è bieco inganno di potere, che prima o poi si pagherà a caro prezzo, la menzogna che illude del contrario chi ha paura di affrontarlo, per ottenerne il consenso.

A queste parole, la Bubola si fermò, come se temesse di essersi spinta troppo oltre in un contesto inopportuno.
“E tu cosa mi dici? – Domandò allora – Ce l’hai il ragazzo?”
La Carati aggrottò la fronte.
“Qui siamo diversi, prof.” Rispose quasi con sufficienza, al che fu la volta dell’insegnante, di mostrare meraviglia.
“In che senso, scusa?” Volle sapere.
La ragazza spiegò che se amare significava sentire il bisogno di stare con lo stesso uomo per tutta la vita, lei non conosceva nessuno a cui interessasse ancora: da loro si badava a divertirsi e basta.

Riccardina ebbe un fremito. Avrebbe voluto intromettersi nel discorso di prepotenza, però vi era estranea, quindi soffocò l’impulso con uno sforzo, per buona educazione.
Ma non poteva certo rinunciare a far sapere la sua opinione a Davide!
“Eccone qua una, stronza!” Gli bisbigliò ringhiosamente nell’orecchio, con un volume che lui le rimproverò, accostando l’indice al naso in un eloquente invito ad abbassarlo.

Ad ogni modo, sull’altro lato del corridoio né la prof né l’allieva diedero a vedere di aver udito il commento, pertanto l’aggressione che esso portava fu ignorata, e il colloquio procedette senza incidenti.

Certo, a formare delle coppie si giocava anche qua, ma perlopiù era un gioco, appunto: quando due si mettevano insieme, difficilmente si sentivano di fare promesse di amore eterno, e quanto alla fedeltà, nessuno era disposto a scommettere un centesimo sul partner… o la partner che fosse.

Nella pausa che seguì, la Bubola, un po’ imbarazzata, non sapeva cosa dire, allora Lilly, che invece aveva in mente un obiettivo preciso, approfittò del momento di difficoltà dell’insegnante per pungolarla di nuovo.
“Ma se fosse rimasta incinta cos’avrebbe fatto, prof? – Domandò – Avrebbe abortito, o sarebbe rimasta giù?”
L’insegnante la guardò interdetta.
“Incinta? Aborto? – Interrogò stupita sé stessa, più che l’interlocutrice – Ma… perché mai? Se fosse successo, vorrebbe dire che l’avevo voluto io, allora sarei rimasta giù, ovviamente.”
“Va bene, ma se invece ci fosse rimasta per caso?”
La donna non contemplava questa possibilità… quella donna, almeno.
“Al giorno d’oggi non si rimane incinte per caso, se si ha un minimo di giudizio.” Fu la sua risposta lapidaria.
La giovinetta scosse lievemente la testa in segno di dissenso, al che un’intuizione improvvisa squarciò l’intelletto dell’adulta.
“Scusa sai, – disse – ma cosa mi stai dicendo? Non è che per caso… appunto… tu…” La guardò negli occhi, e la ragazza fece segno di sì.
“Ma santo Dio, benedetta! Com’è stato possibile?”
Beh, nelle feste dei suoi amici non era poi così assurdo: alcol, erba, funghi, soldi… circolava di tutto in quelle ville sui colli, allora chi si preoccupava di voltarsi a guardare, quando uno cominciava a spogliarti da dietro?
E anche volendo vedere in faccia l’ammiratore, c’era da restare escluse come delle asociali, a fare troppo le schizzinose, mentre magari gli altri erano tutti ingroppati in un’orgia pazzesca.
Ma nessuna voleva rimanere fuori dal giro: le sue amiche accoppiate, che facevano credere al ragazzo di non uscire mai senza di lui, si sarebbero inventate il colera, pur di non mancare, e quando c’erano, del boy friend non si ricordava nessuna.
“Dunque, tu sei rimasta incinta in uno di questi baccanali, e ora ti domandi se sia il caso di abortire… se ho ben capito.”
“Beh, non proprio: – rispose Lilly – per fortuna, della gravidanza non sono ancora sicura al cento per cento, ma sull’aborto non avrei dubbi, nel caso… Quello che le chiedo è come fare: a chi ci si deve rivolgere, quanto tempo occorre per le pratiche e quanto bisogna stare in ospedale… se è possibile farlo in un’altra città, o comunque in anonimo e senza il consenso dei genitori… insomma, tutto quello che occorre sapere, perché è la prima volta che mi capita un impiccio del genere.”
“Deo gratias! – Esclamò la Bubola – E speriamo che l’impiccio sia un falso allarme… Gran consigli non sono in grado di dartene, perché ne so poco anch’io, per fortuna, ad ogni modo, credo proprio che il consenso dei genitori occorra, se sei minorenne.”
“Cazzo, no!” Mormorò Lilly, mordendosi un labbro.
“Ti capisco, – la confortò la confidente – ma a dire il vero non mi sembra affatto il guaio peggiore: l’aborto non è mica un videogioco, sai, ti segna l’anima per tutta la vita… Possibile che non ci sia un’altra soluzione? Che so, il matrimonio, magari: dicono che se ci si mette d’impegno, per un valore importante in comune, può riuscire bene anche senza una gran passione dietro… anzi, meglio che quando la passione c’è, ma manca la buona volontà di venirsi incontro… Oppure tenere il bambino anche se il padre non ci sta… É più difficile, ma ti fa ancora più onore.”
“Onore… – Elisabetta sbuffò un risolino amaro – In casa mia è il prestigio sociale… Invece per lei cos’è? Rinunciare alla vita per pulire cacca ed imboccare pappa? … Non fa per me, e comunque, anche volendo… non so nemmeno chi è il padre.”
La Bubola si limitò a guardarla ad occhi sgranati.
“Chissà cosa mi sono fatta, quella notte… – proseguì allora la ragazza, con lo sguardo assente – Ero completamente fuori… e credo di essere stata con tre sconosciuti uno dietro l’altro.”

Sulle poltroncine dietro all’autista, Davide e Riccardina si guardarono in modo molto espressivo.
“Ti presento il tuo grande amore.” Gli sussurrò lei in tono sarcastico.
“Minchia!!!” Borbottò lui fra sé, ma questa volta non si preoccupò troppo di non farsi sentire.

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