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DRONI E CELLULE STAMINALI: UN CONFRONTO DI POLITICA ECONOMICA TRA EMILIA ROMAGNA E CALIFORNIA

Da diversi anni seguo attentamente i progressi della medicina rigenerativa nel mondo per un concreto interesse personale legato a certi miei problemi di vista.

Ieri ho letto che una società americana di nome jCyte sta iniziando la seconda fase di sperimentazione di un suo prodotto a base di cellule staminali che promette di restituire la vista ai ciechi. La fase uno è stata superata con pieno successo, e risultati preliminari che fanno sperare altrettanto bene per la due. Poi ne seguirà una terza, e se tutto va bene, in poco più di un paio d’anni si potrà cominciare a praticare su larga scala la cura “miracolosa”.

La jCyte è nata praticamente dal nulla grazie ai finanziamenti di DECINE DI MILIONI DI DOLLARI di un ente pubblico californiano, il CIRM, che aiuta così i migliori progetti nel campo della medicina rigenerativa a diventare concrete realtà industriali ad alta remuneratività.

Pur registrando con soddisfazione la notizia, non ho potuto fare a meno di ripensare amaramente ai casi miei ed alla situazione italiana, poiché qui le cose vanno molto diversamente ed io, ahimè, ne sono un testimone diretto.

Ho brevettato diverse idee, infatti, alcune delle quali pubblicate da importantissime riviste scientifiche, ma diversamente da quanto sarebbe accaduto negli USA, questa mia attitudine mi ha fatto solo dei gran danni.

Mi limiterò a citare il caso dei DRONI per lo stridente contrasto con la vicenda della jCyte, ma purtroppo potrei raccontare anche di peggio.

Nel 1986 brevettai un dispositivo per generare spinta aerodinamica con minor impiego di potenza (e quindi minor consumo energetico) delle normali eliche, e pubblicai un articolo in merito sugli ”Atti dell’Accademia delle Scienze di Bologna”.

Riflettevo già da tempo sulla possibilità di realizzare un drone, e quel dispositivo sembrava particolarmente indicato allo scopo, poiché in caso di successo sarebbe stato un ulteriore elemento di innovazione dell’idea del drone, già rivoluzionaria di per sé.

Nel 1987 aprii il primo studio di progettazione computerizzata tridimensionale di Bologna, e, previa consultazione con la dirigenza della Confartigianato, lo iscrissi in tale associazione.

Naturalmente avevo il problema di trovare dei clienti che capissero cosa offrivo loro, perciò, nella ricerca, esplorai anche il settore pubblico.

Mi imbattei così in una recente legge della Regione Emilia Romagna che stanziava fondi per lo sviluppo di progetti di innovazione tecnologica nelle imprese artigiane.

Stando al testo, la legge era allettante, poiché copriva abbondantemente anche i costi di progettazione, cioè proprio l’attività del mio studio. Calcolai che con quel finanziamento avrei potuto sviluppare il drone senza bisogno di dedicarmi ad altro per tutto il tempo programmato, ma poiché già allora non mi fidavo del modo come in Italia si gestisce il denaro pubblico, stavo già per rinunciare, e dedicarmi esclusivamente alle commesse esterne.

Sfortunatamente, però, ebbi una sponsorizzazione privata che mi avrebbe consentito almeno di iniziare, e poiché, d’altra parte, la funzionaria della regione che mi aveva proposto la legge insisteva che il finanziamento era pressoché certo a condizione di essere un’impresa artigiana con un progetto innovativo, alla fine cedetti alla tentazione imprenditoriale. In fin dei conti, all’artigianato ero regolarmente iscritto, e un progetto innovativo l’avevo, eccome!

La prima domanda fu respinta con la motivazione che il fatturato era troppo basso.

Ricorsi al difensore civico obiettando che l’azienda era stata appena aperta, e soprattutto che quel criterio di selezione non era contemplato nel bando.

La commissione si dimostrò molto contrariata dal ricorso al difensore civico

e suggerì di ritentare l’anno dopo.

L’anno dopo, la domanda fu respinta con la motivazione che il progetto era da ingegneri e non da artigiani, e la Confartigianato, chiamata in causa per questo, si fece di nebbia. Inutile sottolineare i legami politico-economici fra tutte le parti in causa, ad eccezione del sottoscritto.

Una successiva domanda di inserimento in un programma regionale di sostegno alle startup tecnologiche, che erano la naturale evoluzione del mio studio in un’azienda di prototipazione rapida con attività interne ed esterne di ricerca applicata, cadde nel vuoto perché la responsabile della commissione non “credeva” nei droni, e per non dirla così, spiegò che non ne avevo documentato l’impatto commerciale… E come cavolo avrei potuto “documentarlo”, visto che i droni non esistevano ancora?

Intanto gli affari dello sponsor avevano preso una brutta piega, tanto che non fu nemmeno in grado di far fronte all’ultima rata del contributo promesso.

Così il progetto dovette fermarsi alla prima architettura d’insieme, che si può vedere nell’articolo di Aeronautica e Difesa qui allegato, ed ai collaudi parziali dei relativi componenti.

Si potrà dire che il prototipo dell’articolo è piuttosto diverso dai droni attuali, ma all’epoca erano ancora di là da venire sia i motori elettrici adatti allo scopo, sia i relativi sistemi di controllo e regolazione, sia le telecamere Gopro, e inoltre il dispositivo di sollevamento era deliberatamente alternativo alle eliche, con lo scopo di sostituirle come ulteriore innovazione in caso di successo della ricerca.

In ogni caso eravamo in anticipo di decenni rispetto alla comparsa definitiva dei droni, perciò probabilmente saremmo stati i primi ad uscire, con un finanziamento come quelli che i buoni progetti ricevono in America, e forse anche con qualche pregio in più.

Viste le decine di milioni di dollari che il CIRM ha erogato alla jCyte, immagino che sia l’uno sia l’altra si aspettino un consistente e rapido incremento del PIL della California, quando la startup biotecnologica sarà in grado di commercializzare i suoi progenitori retinici per la cura della cecità….

Chissà quanto sarebbe l’incremento del PIL dell’Emilia Romagna, se adesso la regione potesse annoverare un’azienda leader nella produzione di droni e nella ricerca applicata, con tante altre idee nel cassetto, ancora migliori!

DV per FB

Teoria Assiomatica della Metafisica Evoluzionistica

Teoria Assiomatica della Metafisica Evoluzionistica

“Teoria assiomatica della metafisica evoluzionistica?”……  Cazzo!!! Viene il mal di mare solo a leggere il titolo.

Vabbe’, proviamoci lo stesso.

I° POSTULATO: “Un giorno l’Umanità  sarà in grado di navigare fra le stelle e le galassie”

Dunque, partiamo da qui, dal fatto che noi umani in giro fra le stelle non ci sappiamo ancora andare, ma prima o poi ci riusciremo, come siamo riusciti a volare, ad inabissarci nelle profondità del mare e magari, fra un po’, con qualche altro progresso della biologia, a vivere a tempo indeterminato.

 Naturalmente uscire dal sistema solare sarà una conquista difficile, perché per andare avanti e indietro fra una stella e l’altra, in tempi compatibili con la durata della vita, bisognerebbe muoversi a velocità assai superiori a quella della luce, e questo è un bel problema.

Per comprenderlo, basti pensare che la stella più vicina si trova a 4 anni luce da qui, e le altre a decine, centinaia, migliaia, milioni e miliardi di anni luce. Questo significa che la luce, alla velocità di 300000 chilometri al secondo, impiega 4, o rispettivamente decine, centinaia, migliaia, milioni e miliardi di anni per coprire queste distanze, e pertanto che noi non siamo ancora in grado di percorrerle, almeno per ora.

La velocità della luce, infatti, è una soglia assai complicata, perché tanto per dirne una, man mano che ci si avvicina il tempo a bordo dell’astronave scorre sempre più lento, fino a fermarsi del tutto quando si raggiunge, mentre a casa il suo ritmo rimane sempre lo stesso. In conseguenza di ciò, al ritorno da un fine settimana a quella velocità su Alfa Centauri (4 anni luce) noi saremmo invecchiati di un paio di giorni, ma nostra moglie di 8 anni, e dopo alcuni week end, i giovani astronauti potrebbero dover accudire all’ospizio dei figli ormai canuti e incartapecoriti.

 Andare più veloci è ancora più difficile, tanto che la Hack, Pacini e Piero Angela sostengono che sia impossibile.

In realtà, le equazioni universalmente accettate della fisica non lo escludono affatto, a condizione di accettare di compiere il viaggio immersi in una realtà di sapore onirico,  una sorta di iperuranio a-causale ed incontrollabile, dove la nostra stessa ciccia, la materia di cui siamo fatti, dovrebbe avere proprietà tanto sconosciute da doversi misurare con i numeri immaginari, che sono una bella invenzione matematica, ma di significato fisico, se esistente, ahimè ancora oscuro.

 Le massime velocità accessibili alla nostra attuale tecnologia di navigazione inerziale sono dell’ordine di qualche centomila chilometri l’ora, ossia qualche migliaio di volte inferiori alla velocità della luce, e a questo passo, un viaggio fino alla stella più vicina richiederebbe delle ferie di circa 30000 anni, pertanto è evidente che, a meno di scoperte rivoluzionarie, non possiamo ancora pianificarlo.  Non è un problema tecnologico, è un problema scientifico, ma se con il progresso siamo riusciti a passare dai segnali di fumo alla televisione, io credo che prima o poi lo risolveremo.

 II° POSTULATO: “Nell’universo la vita è la regola, non l’eccezione” 

 Un’altra cosa di cui sono convinto al punto che per me ha il sapore di un assioma, è che nell’universo la vita sia la regola anziché l’eccezione, il che porta ad immaginarlo popolato da un’infinità (cosa molto diversa da: “infinite”) di specie viventi diversissime le une dalle altre.

Ora, poiché il progresso è un processo evolutivo, e in quanto principio scientifico l’evoluzione dovrebbe avere validità universale, ne consegue che il creato dovrebbe pullulare degli esseri più svariati, ai più svariati stadi di sviluppo: da quelli molto antecedenti il nostro, a quelli assai più avanzati, capaci di navigare fra le galassie e chissà di che altro.

Naturalmente è difficile immaginare una civiltà assai più avanzata di quella in cui siamo nati e viviamo, sia in considerazione del fatto che la scienza è già molto progredita e sempre più veloce quaggiù, sia soprattutto delle prospettive conseguenti in campo biologico: che senso avrebbe, infatti, il mondo intero così come lo conosciamo, per un’umanità immortale o anche solo emortale?

LA TEORIA DELLA METAFISICA EVOLUZIONISTICA

Se l’universo fosse infinito, dai due postulati precedenti conseguirebbe necessariamente che esso ospita infinite stirpi in grado di navigare fra stelle e galassie, e quindi il fatto che la terra sia da molto tempo nei rispettivi cataloghi turistici sarebbe un teorema.

Siccome però all’attuale livello di conoscenza non possiamo sapere nulla riguardo ad oggetti più lontani di una quindicina di miliardi di anni luce, al cui interno sta un universo finito, queste affermazioni possono aspirare solo al rango di teorie. 

Tuttavia, ci sono cento miliardi di stelle solo nella nostra galassia, e a loro volta pure le galassie si contano a miliardi, quindi anche solo l’universuccio alla portata dei nostri telescopi offre un tale numero di possibilità alla teoria, da renderla a mio avviso assai più attendibile statisticamente del più ritardatario dei numeri ritardatari al gioco del lotto, e noi sappiamo bene che benché ad ogni estrazione le probabilità di uscita siano sempre le stesse, alla fine i ritardatari sono sempre usciti. 

 Dunque, la probabilità che gli alieni esistano è quasi una certezza, e che siano arrivati fin qui è inferiore solo di poco, perciò cercarli seriamente è doveroso, anche in mezzo a noi.

 La domanda di Fermi: “Ma allora, perché non si vedono?”

 Io non lo so, né so di preciso a quando risalgano le prime tracce di vita sulla terra.

Sta di fatto che il nostro pianeta ha sui 3-4 miliardi di anni, e l’universo un po’ meno di una quindicina. Il ramo evolutivo di tipo ominide ha cominciato a differenziarsi dall’albero genealogico delle scimmie antropomorfe sui 6 milioni di anni fa, l’uomo di Neanderthal s’aggirava per l’Europa circa centomila anni orsono, il Cro Magnon trentamila, la scrittura avrà sì e no cinquemila anni, la radio 100, la televisione 60, internet 37, la pecora Dolly 9… 

A quando la resurrezione dei mammouth?

Secondo alcuni fra non molto, ma allora che ci sarà fra cento, duecento o più anni? Ovvero: di cosa sono capaci, che proprietà hanno gli esseri che a quel livello sono già arrivati?

E che ce ne siano tanti, di varia provenienza,  è assai probabile sia per quanto già visto, sia in considerazione del fatto che sulle scale temporali accennate un divario di civiltà di alcune migliaia di anni è una bazzecola.

Per convincersene non c’è bisogno di andare tanto lontano.  In questo preciso istante, è in atto un gigantesco trasferimento tecnologico sulla terra stessa, fra società umane separate in origine da millenni di progresso, se è vero, come è vero, che ancora il secolo scorso alcune di esse non conoscevano ancora né la scrittura né la ruota, e usavano utensili di pietra scheggiata, cioè che vivevano a tutti gli effetti nel paleolitico, nonostante il resto del mondo fosse ormai prossimo a sbarcare sulla luna.

Certo è che bisogna avere l’umiltà di riconoscere che se degli alieni più avanzati di noi di quanto basta per navigare fra le stelle non volessero mostrarsi, questo non sarebbe un problema per loro.

Quindi, siccome non abbiamo ancora prove della loro presenza, significa che se sono qui non vogliono rivelarsi, e se sono addirittura di provenienze diverse, si sono anche accordati in questo senso.

Ma perché?

Boh! Le ipotesi sono tante, più o meno verosimili, ai miei occhi tanto meno quanto più si rifanno ai modelli socioculturali umani, cioè propri di una specie per definizione assai più arretrata di quelle sotto indagine.

Tuttavia, un modello interpretativo coerente con tutti i dati, le conoscenze e le sapienze disponibili è possibile e, lo dico a malincuore sapendo di suscitare un vespaio, riconduce alle verità rivelate in modo assai più congruente di qualsiasi professione di fede a priori, a favore o contro che sia.

Intanto bisogna dire che, per questi esseri, l’esperienza esistenziale deve essere per forza qualcosa di assolutamente “altro” dalla nostra.

Se anche fosse partita dalla stessa base biologica, infatti, ormai la loro vita sarà immortale o almeno emortale, allora essi avranno cessato di moltiplicarsi, e se pure ancora si riproducono, lo fanno in una dimensione magari localizzata, ma necessariamente infinita, ossia metafisica… 

Ahiahiahi!!! Lo so che ora comincerà il lancio di pietre, ma francamente, questo mi sembra l’unico esito possibile di un’evoluzione che abbia portato all’immortalità. Anche perché non ci vedo proprio niente di strano nemmeno nella prospettiva più tenacemente materialista.

Per quanto ne sappiamo, infatti, l’essere è fatto di energia, di cui la materia è solo uno stato, quindi una qualche intuizione della personalità in termini metafisici, ancorché verosimile è del tutto naturale, solo che si riconosca alla pura energia la possibilità di organizzarsi in forme pensanti, capaci di interagire con la materia.  

In quest’ottica, tutto si ricompone: scienza e religione non hanno più bisogno di farsi la guerra.

Se ciò che è necessario per superare la velocità della luce è la massa immaginaria (che strana coincidenza il nome di questa classe di numeri, vero?), che durante il viaggio ci farebbe sprofondare in una realtà onirica, magari è proprio in questa dimensione psichica che si deve ricercare il significato del termine stesso e la possibilità di trattare il concetto operativamente.

Del resto, la realtà di questo stato cosiddetto “alterato” di coscienza non è minore di quella dello stato ordinario, visto che spesso per il senziente è del tutto indistinguibile.

Ma chi ha accesso volontario ad una dimensione metafisica dà conto senza contraddizioni non solo di tutte le verità rivelate, ma anche dei fenomeni parapsicologici (e a mio avviso ce ne sono) oggettivamente inspiegabili, ovviando all’apparente violazione del principio di causalità, e quindi alla non ripetibilità degli esperimenti, con l’azione di volontà occulte capaci di condizionarli a piacimento, del tutto legittime anche sul piano scientifico.

E che dire se entità siffatte si servissero più o meno amichevolmente dei sensi e delle altre proprietà biologiche di esseri  semplici come noi per indagare ed operare nel mondo? Avremmo a che fare con individui transpersonali, fatti di persone come noi siamo fatti di cellule, ognuna delle quali è un essere vivente a sé stante, estesi magari sull’intero pianeta, in aggregazioni perlopiù instabili, simili a fluidi di umanità in permanente turbolenza di mescolamento.

Non avrebbero un  senso più  comprensibile, in questo modo, certi comportamenti collettivi altrimenti inspiegabili, come le grandi conquiste o le guerre insensate?

Per un gruppo di una decina appena di amici è quasi impossibile riuscire a mettersi d’accordo sul film  da andare a vedere prima dell’ultimo spettacolo, eppure milioni di uomini si sono mossi all’unisono per andare sulla luna, e alla fine l’hanno fatto, e viceversa, nei flutti in tempesta dell’odio etnico o religioso si sono scannati come maiali mariti e mogli, padri e figli. 

 Gli alieni in questione non sarebbero potuti apparire che come angeli o dei, agli occhi di quei nostri avi cui si fossero palesati per qualche motivo, ma probabilmente anche ai nostri, e senza che ciò alteri in alcun modo l’idea di Dio. Chi non ci crede potrà perseverare senza contraddizioni nell’ateismo anche accettando la particolare visione evoluzionistica di queste righe, e chi invece ha fede in un Essere supremo non la perderà certo ammettendo fra noi e Lui schiere infinite di creature intermedie, anzi: la personificazione su scala cosmica della lotta perenne fra il bene e il male assumerebbe connotati più comprensibili, e la vittoria finale del bene maggiore certezza.

 “Ogni volta che due di voi si riuniranno nel mio nome, io sarò lì”, disse Colui che ha vinto il principe del mondo, la Vite che riunisce in sé i tralci di tutta l’umanità, il figlio dell’Uomo che nell’eternità ha sconfitto la morte, e con il progresso porterà la vittoria nel tempo.

Saluti a tutti

 Fernando  De Benedictis.

 

HOW IS IT THAT I HAVEN’T YET HEARD OF IT? (Combined photovoltaic-hydrogen fed thermoelectric power plant)

The sun sends on Earth such a big amount of energy, that even a minimal part of it could be sufficient to solve all mankind’s problems of power.

Unluckily, the star has the lack of shining when it is not needed, that is in day-time and in summer, when it’s bright and warm, and of being absent in dark and cold time, when it would be much more useful; moreover, convenient means for storing its energy in useful quantity do not exist, therefore the photovoltaic power found a very hard start.

It goes better since when it’s possible transferring in the electrical net the energy collected in excess with respect to the need, but even so, a huge conventional production is also required, for feeding the net in the absence of sun, therefore giving up with oil thanks it, was still utopia until little ago.

For some time, however, it has been available a device which changes things radically, so I foresee that within few lustrums all the fixed thermoelectric power plants will be substituted by the new solar plants which this device makes possible, with a decrease of the oil consumption of at least 50% worldwide.

The idea is so simple, that I wonder I did not yet hear debating it around, therefore I start myself, in case really nobody has yet conceived it,  with the hope that at least the most combative greens will support it.

The device which could allow changing the face of Earth is the endothermic piston engine running on hydrogen, that in truth was developed for auto drive, and perhaps is just the legitimate scepticism about this use that prevents from conceiving others, much more useful and probable.

Hydrogen, in fact, is a gas so light and hard to be liquefied, that for storing the equivalent of 100 litres of gasoline in an auto tank, there is need of an enormous pressure and/or a much lower temperature than that of the most icy Antarctic frost; conditions, these, so hard to be realized economically and safely in an automobile, that personally I wouldn’t bet even 10 cents on the commercial success of this engine in the automotive field.

In a fixed plant, however, the problem of size of a car does not arise, nor does, therefore, that of compressing and cooling down the hydrogen.  In fact, if for the said equivalent of 100 litres of gasoline there is need, at “normal” pressure and temperature, of a 100 cubic metres tank (for instance: a cube with sides few longer than 4.5 metres), building it is not a technical problem, nor economic.

It may then be conceived as follows a photovoltaic plant sized upon the power of the hydrogen-engine.  It consists of the engine itself that, coupled to a generator, will produce current during night, of a tank capacious enough to feed the engine while the sun is absent, of a plant producing hydrogen for the night, and of as many photovoltaic collectors as needed for producing the electricity equal to the sum of the external, diurnal demand and of that for separating hydrogen from water.

So, the few thermoelectric plants currently running, gigantic and polluting, will be substituted by a myriad of photovoltaic-self fed thermoelectric plants, small, very clean, and with no greenhouse effect.

Initially, the kilowatt-hour’s cost could increase a bit, but the savings on the fuel and the rapid descent of the plant’s costs with increasing production would let it diminish briefly… Besides, shan’t we consider the satisfaction of backing out of the oil blackmail, of resetting the greenhouse effect, and of having clean air everywhere?

About innovation everybody is always spouting off… let’s see. The European Union allocates a lot of money for realizing it concretely.

MA COM’È CHE NON NE HO ANCORA SENTITO PARLARE?(Centrale combinata fotovoltaico-termica a idrogeno)

MA COM’È CHE NON NE HO ANCORA SENTITO PARLARE?

(Centrale combinata fotovoltaico-termica a idrogeno).

 Il sole ci invia tanta di quell’energia, che anche una minima quantità di essa basterebbe a risolvere per sempre tutti i problemi energetici dell’umanità.

Purtroppo l’astro ha il difetto di “esserci quando non serve”, cioè di giorno e d’estate, quando c’è luce e fa caldo, e di “non esserci quando è buio e fa freddo”, che farebbe comodo molto di più; per giunta non esistono mezzi pratici per immagazzinarne l’energia in misura utile, perciò l’avvio del fotovoltaico ha stentato molto.

Va meglio da quando c’è la possibilità di riversare nella rete elettrica l’energia raccolta in esubero rispetto al bisogno, ma anche in questo caso occorre pur sempre una forte produzione convenzionale per alimentare la rete stessa quando il sole non c’è, di conseguenza l’abbandono del petrolio grazie al sole, fino a poco tempo fa era ancora un’utopia.

Da qualche tempo, però, esiste un oggetto che cambia radicalmente le cose, per cui mi aspetto che entro pochi lustri tutte le installazioni fisse di potenza termica siano sostituite dalla nuova centrale solare che questo oggetto rende possibile, con un abbattimento del 50% almeno dei consumi petroliferi mondiali.

L’idea è tanto semplice, che mi meraviglia non averla ancora sentita dibattere in giro, perciò comincio io, nel caso davvero non ci abbia ancora pensato nessuno, con la speranza che se ne facciano portabandiera almeno i verdi più combattivi.

L’oggetto che potrebbe consentire di cambiare la faccia della terra è il motore endotermico a idrogeno, che per la verità è stato sviluppato per la trazione automobilistica, e forse è proprio il fondato scetticismo che circonda questo impiego, ad impedire di comprenderne altri assai più utili e verosimili.

L’idrogeno, infatti, è un gas talmente leggero e difficile da liquefare, che per immagazzinarne l’equivalente di 100 litri di benzina in un serbatoio da autovettura occorrono pressioni enormi e/o temperature di gran lunga più basse del più rigido gelo antartico, condizioni tanto difficili da realizzare economicamente ed in sicurezza in un’automobile, che personalmente non scommetterei nemmeno 10 centesimi sul successo commerciale di questo motore in campo automobilistico.

In un impianto fisso, però, il problema di spazio di una vettura non si pone, quindi nemmeno quello di comprimere e raffreddare l’idrogeno. Infatti, se per quel famoso equivalente di 100 litri di benzina occorre, a pressione e temperatura normali,  un serbatoio da 100 metri cubi (per rendere l’idea, un cubo di poco più di 4 metri e mezzo di lato), realizzarlo non è un problema né tecnico né economico.

Si può allora concepire come segue una centrale fotovoltaica dimensionata in base alla potenza del motore a idrogeno. Essa è costituita dal motore stesso che, accoppiato ad un generatore, fornisca  elettricità nel  funzionamento notturno, da un serbatoio della capacità sufficiente ad alimentare il motore durante l’assenza del sole, da un impianto per la produzione dell’idrogeno per la notte, e da tanti pannelli solari quanti ne occorrono per una produzione di elettricità pari alla somma della richiesta diurna esterna e di quella per  separare l’idrogeno dall’acqua.

Così, le poche centrali termoelettriche attuali, enormi ed inquinanti, verrebbero rimpiazzate da una miriade di impianti fotovoltaici a ciclo integrale, piccoli, pulitissimi e ad effetto serra nullo.

Inizialmente, il costo del chilowattora potrebbe lievitare un po’, ma i risparmi sul combustibile e la rapida discesa dei costi d’impianto all’aumentare della produzione lo farebbero rientrare in breve… E poi dove la mettiamo la soddisfazione di sottrarci al ricatto petrolifero, di azzerare l’effetto serra, e di avere l’aria pulita dovunque?

 Con l’innovazione si riempiono la bocca tutti… vediamo un po’, l’Unione Europea stanzia un sacco di soldi per realizzarla davvero.